Nel giro di pochi anni, in un panorama editoriale nostrano che spesso non premia la complessità, un autore invece complesso come Orazio Labbate ha saputo guadagnarsi un nome importante. Sia come romanziere, con le storie nerissime e letterariamente stupefacenti del suo gotico siciliano – che esorcizzano gli usi facili delle commistioni lingua-dialetto di tanti aspiranti epigoni di Camilleri per ricondurre al ceppo immansueto dei D’Arrigo e dei Consolo con un quid di mannaro in più –, sia come critico letterario: e monumentale è per esempio il suo lavoro di notomizzazione compiuto settimanalmente su “La Lettura” del “Corriere della Sera”. Poi è ovvio che non si si possano dare brutali cesure: Labbate studioso di letteratura, discepolo di Francesco Orlando e di Nicola Gardini, è anche narratore, e il saggio ora apparso ne è la prova, sorta di Paralipomeni alla sua Trilogia del gotico siciliano.
Scopo è incalzare, in una Wunderkammer densissima e a tratti straniante, di vertiginosa e variegata cultura (c’è la grande critica, il richiamo all’autore studiato in accademia ma anche il videogioco Silent Hill di Konami) una sorta di vocazione nascosta, di chiave o clavicula inquieta nella narrativa italiana: quella cifra dell’orrore liquidata troppo spesso con insufficienza. Dove anzi già il titolo del volume pare provocatorio. Sia perché orrore è un termine che in Italia l’editoria “seria” – ma in generale la comunicazione, si pensi a festival che presentano questo tipo di contenuti (libri, film) ma ne censurano la definizione – non ama e da cui anzi rifugge, considerandolo impresentabile davanti a un certo target, in un rosario di virtuali sostituti che però non sono realmente tali: gotico (insieme di ampia intersezione, non risolvibile in quanto tale nell’horror pur cogliendone alcune componenti fondamentali), thriller, noir, nero, l’oggi spesissimo weird… Sia perché il richiamo è al letterario, senza distinguere mainstream e genere – visto che giustamente i due distinguo mainstream/genere e letterario/paraletterario non possono sovrapporsi tout court, e il raccordarli forzato conduce a due opposti e demenziali snobismi (quello “alto” contro il genere, liquidato come presuntamente povero a prescindere, e quello “basso” contro la letteratura come presunto mondo di salotti contro cui “noi pugno di eroi” eccetera). La letterarietà di un testo non riguarda la forma scelta ma il suo contenuto specifico, ed emblematica è la riflessione poi riproposta in quarta di copertina: “Qualità primaria è la lingua: da essa ha fondamento e conio quest’orrore letterario. Le opere esemplari, difatti, sono innanzitutto la prova di una voce”.
Il testo è strutturato come sequenza di schedature critiche di romanzi, ciascuna con un “cuore”, un exemplum dalla singola opera che evidenzi la presenza dell’orrore: ma il flusso è ripartito in tre “pance contenutistiche”: mito e gotico, inquietudine e horror teologico-esistenziale, perturbamento investigativo. Tre “pance” preziose anche nello studio di altre tradizioni del fantastico e dell’orrore, si pensi solo a quello anglosassone; ma nella produzione nostrana esistono specificità, grumi immaginali di cui il fiuto rabdomantico di Labbate sgrana le provocazioni, e ben echeggiati da alcune tavole febbrili di Odilon Redon (a partire da quella di copertina).
Brandendo non solo Orlando e Gardini ma una serie di testi ispiratori eccellenti (Bufalino, Sciascia, Manganelli, Ceronetti, Ligotti, Bernhard, Danielewski…), Labbate parte dunque da quella dimensione mitica da lui tanto esplorata nel rapporto con la sua Sicilia ctonia, e allarga: Horcynus Orca di D’Arrigo; Nottetempo, casa per casa di Consolo; La palude definitiva di Manganelli; L’impero familiare delle tenebre future di Andrea Gentile; Il demone meridiano di Andrea Morstabilini; Nella perfida terra di Dio di Omar Di Monopoli; Il Monaciello di Napoli di Anna Maria Ortese; La notte si avvicina di Loredana Lipperini.
Per il secondo fronte, tanto caro all’autore tra gli allarmanti Signore dei Puci e Madonna dell’Alemanna, e poi incubi, apostoli inferi ed esorcismi – che poco finiscono ad avere in comune con la fede del Vangelo, mentre sfidano sul tema del Male – il nesso tra inquietudine e horror teologico-esistenziale viene indagato attraverso Landolfi, Le più belle pagine scelte da Italo Calvino; Moresco, Gli esordi; Emanuele Tonon, Il nemico; Alcide Pierantozzi, Uno in diviso; Giuseppe Genna, Italia De Profundis; Fleur Jaeggy, Le statue d’acqua; Bufalino, Le menzogne della notte.
Il terzo corno, quel perturbamento investigativo che dà conto del legame tra quest “poliziesca” e gotico, vede invece analizzare con la sua specialissima lente Mari, Fantasmagonia; Meldini, L’avvocata delle vertigini; Sortino, Elisabeth; Sciascia, La strega e il capitano; Eco, Il cimitero di Praga.
Ovvio, non fermiamoci al gioco asfittico del chi c’è”/“chi manca: sia perché l’autore stesso ammetteva al Book Pride che altri nomi gli piacerebbe aver inserito – ma un libro a un certo punto va chiuso – sia perché una rassegna del genere è funzionale a offrire strumenti d’analisi, provocazioni da lanciare al lettore che le misuri su altre opere, più che un repertorio con pretese di (impossibile) “completezza”. Dove però gli strumenti forniti sono, a questo punto, da considerarsi acquisiti in sede critica, sia per una più generale analisi dell’orrore in letteratura, sia nell’ambito di uno scavo specifico nella letteratura italiana. E il concetto di orrore tanto bistrattato in Italia, ma in fondo tanto adatto a parlare dei tempi e delle inquietudini che viviamo (crisi economica e climatica, pandemia, guerra e ricadute nella nostra psiche e nel nostro tessuto personale), non potrà più considerarsi – come la liquidava l’amministratrice di un castello in cui anni fa andavamo a tenere un convegno su questi temi – materia da “pipistrellini di gomma”. In quei pipistrellini, a volerli chiamare così, c’è troppo di noi per poterli disprezzare a cuor leggero.