Operazione Englander

Nathan Englander, Una cena al centro della terra, tr. Silvia Pareschi, Einaudi, pp. 238, euro 19,50 stampa, euro 9,99 ebook

“In Israele fumano tutti. È come se vivessimo negli anni Sessanta, […] come una rivoluzione. È la nazione più strafatta del mondo” – questa non è, come qualcuno potrebbe pensare, una citazione da un romanzo di Thomas Pynchon, bensì l’opinione di un personaggio del graffiante racconto “Di cosa parliamo quando parliamo di Anne Frank”, che dà il titolo alla raccolta pubblicata nel 2012 da Nathan Englander (che pure è nato a Long Island, anche se nel 1970, trentasette anni dopo il decano del postmodernismo americano).

Il suo secondo romanzo, Una cena al centro della terra, è indubbiamente pynchoniano nella struttura e nei temi, ma dietro c’è anche il Philip Roth dello strabiliante Operazione Shylock, con cui Englander è obbligato a confrontarsi nel rappresentare il conflitto arabo-israeliano attraverso un carosello di spie e contro-spie, traditori e traditi, dove nessuno è mai quello che dice di essere. Ambientato tra la striscia di Gaza e Capri, il deserto del Negev, Parigi, Gerusalemme, Berlino e uno strano limbo tra la vita e la morte, l’autore stesso ha definito Una cena al centro della terra “un romanzo letterario dentro uno spy thriller che sta dentro una storia d’amore a sua volta nascosta dentro un’allegoria”. Ciononostante, dopo un breve spaesamento iniziale, il lettore non fa alcuna fatica a seguire la trama nelle sue avvincenti e complicate evoluzioni – una volta acceso lo spinello e tirata la prima boccata, tutto diventa più… chiaro.

Il Prigioniero Z è “un refuso umano che sta per essere cancellato dal rigo”. Rinchiuso da ormai dodici anni in una cella segreta da qualche parte nel deserto del Negev, spiato da telecamere sempre accese e controllato da un sorvegliante che costituisce il suo unico contatto umano, scrive a cadenza regolare lettere destinate al Generale, il comandante militare che lo ha fatto rinchiudere quando Z, un’ex spia del Mossad, ha deciso per un accesso di empatia verso i palestinesi di tradire il suo paese. Non sa che il Generale è in coma da otto anni in seguito a un ictus e che la sua mente si trova in un misterioso Limbo, dove ripercorre le varie fasi della sua vita cruenta.

Se il Prigioniero Z è ispirato alla figura di Ben Zygier (noto come Prigioniero X), un agente del Mossad di origine australiana trovato morto in una prigione israeliana nel 2010, il Generale è invece una raffigurazione, nemmeno troppo velata, di Sharon – un guerriero spietato, violento, che “ha il compito di combattere le loro guerre”, le guerre dello stato di Israele che i politici Ben Gurion, Peres, Dayan, appoggiano senza volersi sporcare le mani: “Nessuno impartiva mai un ordine diretto. Si limitavano a sguinzagliarlo, come se quelle che combatteva fossero le sue guerre private. Dopo ogni vittoriosa rappresaglia gli dicevano, Non puoi continuare a vincere così bene”.

Tra questi due poli ruotano una serie di personaggi finemente delineati: il palestinese Farid, che si è trasferito a Berlino pur continuando ad aiutare la causa del suo paese; Ruthi, la madre del sorvegliante nonché fedelissima del Generale; Shira, una ex spia israeliana innamorata di un mappatore palestinese; la madre di Z, costretta a fingere un tumore che alla fine, forse, arriva davvero. Tradotti in italiano, certi libri perdono inevitabilmente parte della loro efficacia; la scrittura di Englander, al contrario, sembra brillare ancor più nella precisa e sfavillante traduzione di Silvia Pareschi, che ha saputo infondere alle descrizioni caustiche e ai dialoghi pungenti un’incisività che rispecchia l’originale inglese.

Englander descrive i personaggi con ironia, usando tratti veloci ma precisi. Non mancano momenti esilaranti, come quando Z, raccontando come ha cercato di salvarsi dal Mossad in una situazione di estremo pericolo, afferma: “Ho attivato mia madre. […] Cos’altro fa un ragazzo ebreo quando è nei guai?”. Nonostante la trama accattivante e i tocchi di intelligente umorismo, il romanzo è pervaso da un senso di profonda tristezza: sembra proprio che, nonostante gli sforzi compiuti in periodi alterni da entrambe le parti per arrivare a qualcosa di simile alla pace, il conflitto arabo-israeliano sia invece destinato a perdurare, in un’escalation di violenza, brutalità e rappresaglie sempre più tremende.

“Non so se valga la pena di continuare a provare”, afferma il mappatore palestinese, e la sua amata gli chiede: “Di continuare a provare con me o con noi? Popoli o persone, di cosa stai parlando?” Nel romanzo di Englander la distinzione è di fondamentale importanza, perché se i popoli sembrano destinati all’odio reciproco, le persone possono invece amarsi, e grazie all’amore creare situazioni di dialogo, trovare soluzioni alternative, come quella di organizzare, appunto, una cena al centro della terra, nei tunnel segreti costruiti dai militari, in quello che l’autore definisce “lo spazio grigio dove Gerusalemme e Al-Quds [il nome arabo della città] si incontrano”. Anche se l’incontro avvenisse solo durante un trip da cannabis, varrebbe comunque la pena seguirlo fino in fondo.

A proposito: è del marzo scorso la notizia che Israele, secondo Paese al mondo nella distribuzione della cannabis a uso terapeutico, ha ufficialmente depenalizzato l’uso della marijuana. Che sia questa la strada giusta per avviare un processo di pace?