I ventitré giorni della città di Alba, di Beppe Fenoglio

Certe volte uno scrittore viene associato vita natural durante a un suo libro, e questo è il caso di Fenoglio, noto come “l’autore de Il partigiano Johnny”. Capita anche che uno scrittore si associ a una sua frase particolarmente memorabile: nel caso di Fenoglio, questo incipit ironico e folgorante: “Alba la presero in duemila il 10 ottobre e la persero in duecento il 2 novembre dell’anno 1944”. Detto questo, ci tengo a sottolineare che non si tratta delle prime righe del Partigiano Johnny, bensì dell’opera d’esordio dello scrittore langarolo: I ventitré giorni della città di Alba, che prende il titolo dal primo racconto della raccolta.

Fenoglio è ironico, asciutto, e soprattutto, come si dice ben più a sud del Piemonte (e delle Langhe),  non te la manda a dire. Cioè, parla chiaro, senza tanti riguardi, senza falsi pudori né diplomatici eufemismi (cosa che in questo Paese non è sempre gradita). Anche nella chiusa di quel racconto non si fa scrupolo di spiegare come mai se in così tanti avevano preso Alba furono così pochi a perderla. Il giorno che i repubblichini attaccano la cittadina in massa, per cancellare quell’abominio (ai loro occhi) della repubblica partigiana, “a Dogliani, ch’è un grosso paese a venti chilometri da Alba, c’era la fiera autunnale e in piazza ci sarà stato un migliaio di partigiani che sparavano nei tirassegni, taroccavano le ragazze, bevevano le bibite e riuscivano con molta facilità a non sentire il fragore della battaglia di Alba”.

Non meraviglia che la narrativa di Fenoglio incentrata sulla resistenza abbia urtato diverse sensibilità. Se a questo piglio ironico e brusco (per l’appunto che non te le manda a dire) uniamo anche il fatto che Fenoglio passò dai partigiani delle Brigate Garibaldi (quelle del Partito Comunista) ai cosiddetti “badogliani”, e ritenne i secondi più organizzati e professionali dei primi, si capisce come mai in vita, pur godendo della stima e della considerazione di Italo Calvino e Natalia Ginzburg, fu attaccato con virulenza dalla critica più prossima al Partito, fin dalla sua opera prima. I ventitré giorni ebbero l’onore, come spiega Susanne Portmann in un bell’articolo online, di essere malmenati da Carlo Salinari sulle pagine dell’Unità, e ancor più ferocemente da Davide Lajolo con un articolo anonimo sempre sullo stesso quotidiano (Lajolo poi cambiò idea, ma lo fece quando Fenoglio era morto e sepolto, alla fine degli anni Settanta; in Italia la scoperta postuma degli scrittori è veramente un po’ troppo frequente…).

Cos’è che infastidiva tanto la critica letteraria italiana dei primi anni Cinquanta nelle pagine di Fenoglio? Cosa portò questo scrittore a restare marginalizzato fino alla sua morte per un tumore all’età di quarant’anni, nonostante venisse pubblicato da Einaudi e Garzanti? Solo la sua rappresentazione non agiografica della guerra partigiana, che non cedeva mai alla tentazione di assecondare la glorificazione in blocco e acritica di chi aveva combattuto ad armi impari nazisti e fascisti tra il 1943 e il 1945? Certo, nel feroce attacco di Lajolo c’è anche questo, quando dichiara: “Stupisce che un editore come Einaudi pubblichi roba del genere”, con partigiani che stanno “tra la caricatura e il picaresco”. Il Partito Comunista favoriva la rappresentazione dei combattenti contro il nazifascismo in stile epico e monumentale, un po’ come quelle statue colossali di cui abbondano le terre un tempo comprese nel Patto di Varsavia: uomini e donne d’acciaio o di marmo, sguardo verso l’avvenire, bandiere rosse che garriscono al vento o alla bufera, mai un cedimento, mai un’esitazione dopo la fatidica scelta di lottare contro l’oppressione. Titanismo stalinista, come si vede in quelle tele del classicismo surreale sovietico; proprio quello che non troverete nei primi sei racconti de I ventitré giorni.

Va infatti detto che dei dodici pezzi inclusi nella raccolta solo metà trattano della guerra partigiana; gli altri invece sono storie del tempo di pace, ambientate nelle Langhe, queste colline aspre e selvatiche (secondo Vittorini, barbare) che Fenoglio conosceva per esservi nato e cresciuto e per avervi combattuto. Storie di campagna, senza edulcorazioni e senza nostalgie ammollate nel sentimentalismo. Mostrano la vita dei langaroli come una lotta incessante e incattivita contro la miseria e la fame. Scordatevi il Mulino Bianco. Leggete “Pioggia e la sposa”, o “Nove lune”, che scattano istantanee impietose (le immagino rigorosamente in bianco e nero) di due momenti nella vita di una famiglia che normalmente si definirebbero felici: il matrimonio e il fidanzamento. Nel primo caso si va dai parenti a piedi, sotto una pioggia battente, attraversando una campagna fangosa, soprattutto perché non si può perdere l’occasione (che non capita spesso) di farsi una bella mangiata; nel secondo, il giovanotto che ha messo incinta la sua ragazza va a chiederne la mano ai genitori per essere picchiato e insultato, e infine accettato, o meglio sopportato, a malincuore, più per rattoppare la reputazione della fanciulla (e della famiglia) che per affetto o anche solo simpatia. Soprattutto “Nove lune” è un racconto brutale che espone senza esitazioni un mondo povero e selvatico, dove le emozioni non si manifestano: esplodono come bombe a mano, anche con morti e feriti.

Quanto ai racconti sulla resistenza, anche lì lo sguardo è impietoso. In “Il vecchio Blister” si racconta la morte di un partigiano, ma non per mano dei fascisti o dei tedeschi. No, il vecchio Blister lo ammazzano i suoi stessi compagni perché ha rubato ai contadini oggetti d’oro che poi ha rivenduto. Blister non è affatto l’eroe tutto d’un pezzo, il combattente per la libertà che affronta la morte senza esitazioni. E quando lo portano nel campo dove gli spareranno, Blister s’inventa che l’esecuzione altro non sia che una messa in scena:

Voi non vi sognate nemmeno di fucilarmi, mi avete già quasi perdonato e se non fosse per la figura mi trattereste già di nuovo come prima, quando il presidio di Cossano non si poteva nemmeno concepire senza il vecchio Blister. Però pensate che a non farmi niente io la passo troppo liscia e cercate di farmela pagare un pochino. Ma io ho già fiutato che farete tutto in regola, meno la raffica e la fossa. Volete solo farmi venire un accidente, farmi prendere uno spavento che mi serva di lezione e poi per voi io sono già bell’e castigato. Volete che io mi metta in ginocchio, che preghi a mani giunte, che mi pisci nei calzoni e nient’altro.

A leggere le parole di Blister ci si sente male, e quando si sente scavare la fossa e arriva la raffica finale è quasi una vergognosa liberazione anche per noi. E si capisce che la Resistenza non è stata una parata, non ha niente a che fare con certe raffigurazioni agiografiche ed edulcorate: che è stata una cosa brutta e sporca soprattutto per chi l’ha vissuta, anche se indispensabile. La resistenza è stata una guerra, e come tutte le guerre è ammazzare ed essere ammazzati; peggio, è stata una guerra civile, come recitava il primissimo titolo della raccolta di racconti proposta da Fenoglio all’Einaudi e prontamente cambiato. E le guerre civili sono le più feroci e laceranti, mettono contro fratelli, parenti, amanti, vicini di casa. Ecco, già l’espressione “guerra civile” in quel titolo era problematica, perché allora si concepiva la resistenza solo come guerra di liberazione, in senso patriottico e nazionalista: gli italiani che si liberavano dall’invasore tedesco, quasi si replicasse la battaglia del Piave. Così facendo si tagliavano quegli imbarazzanti tre anni, dal 1940 al 1943, durante i quali l’Italia come nazione combatteva con i tedeschi contro inglesi, americani e russi. La Resistenza rimetteva tutto a posto, in qualche modo redimeva la nazione. Ma inquadrandola come guerra civile, come fece Fenoglio prima degli storici, diventava difficile dare il colpo di spugna, cancellare un passato col quale non era facile fare i conti.

Non a caso Fenoglio quel passato non lo nasconderà, anzi lo racconterà in Primavera di bellezza, breve romanzo autobiografico che racconta dell’autore chiamandolo Johnny (ed ecco da dove scaturisce il protagonista del suo romanzo più famoso). In questo testo breve, teso e amaro, si racconta la vicenda di un gruppo di allievi ufficiali italiani, poco più che diciottenni, proiettati a Roma poco prima del bombardamento di San Lorenzo, che causerà la caduta di Mussolini e in ultima analisi l’armistizio dell’8 settembre. Si conclude col ritorno di Milton in Piemonte e la sua morte in una delle primissime azioni partigiane (per lo più militari italiani di stanza in Francia, sbandati, che si imboscano sulle montagne e sulle Langhe non potendo tornare a casa, e poi prendono ad attaccare i tedeschi). Qui vediamo “dal basso” i grandi avvenimenti che portano alla capitolazione dell’Italia, alla sua lacerazione in due tronconi diversamente occupati, e all’inizio della guerra civile (questa contingenza tornerà, variata, nell’inizio del Partigiano Johnny, tanto evidentemente Fenoglio lo considerava uno snodo chiave del suo vissuto e di quello della nazione intera).

Primavera di bellezza uscirà nel 1959 per Garzanti, non Einaudi, perché Fenoglio aveva lasciato lo struzzo per un incidente verificatosi all’uscita della sua seconda opera, il romanzo breve La malora, pubblicato nel 1954, nel quale lo scrittore, messa temporaneamente da parte la guerra, si concentrava sul mondo contadino che conosceva così bene, ricostruendone la vita grama attraverso la storia di un ragazzo mandato dai genitori a servire un mezzadro. Vittorini aveva messo Fenoglio nel mazzo dei “giovani scrittori dal piglio moderno e dalla lingua facile”, e questo non in una recensione, ma nella quarta di copertina del libro stesso – mossa per lo meno singolare, visto che qualsiasi curatore di collana tende a evidenziare i pregi delle opere che pubblica, non a ostentare scetticismo e disapprovazione…

Questo episodio ci induce a ripensare tutto il rapporto tra Vittorini e Fenoglio, a partire già dal suo inizio, quando lo scrittore albese manda in lettura da Einaudi i suoi racconti e il suo romanzo breve La paga del sabato; viene il dubbio che Vittorini, a differenza di Calvino e della Ginzburg, non nutrisse grande affetto per l’autore dei Ventitré giorni. Invidia tra scrittori? Non sarebbe la prima volta. Diffidenza ideologica? Non dimentichiamo che nel referendum del 1946 Fenoglio aveva votato monarchia, e che politicamente era ben distante dalle posizioni del suo collega siciliano. Divergenze stilistiche? Certo la lingua asciutta e apparentemente “facile” delle prime opere di Fenoglio non è la prosa d’arte che secondo alcuni critici restava l’ideale di Vittorini. Incomprensioni culturali tra settentrione e meridione? Chissà, potrebbe esserci anche quello, a dividere il piemontese dal siciliano (Fenoglio – o meglio il suo alter ego letterario – da parte sua è un po’ diffidente coi meridionali e sprezzante coi romani, diciamocelo). Mettiamoci anche la differenza d’età, di ben quattordici anni; i due appartenevano a diverse generazioni, con diverse esperienze alle spalle; e poi, sappiamo tutti che Vittorini guardava all’America, mentre Fenoglio era terribilmente anglofilo. Senza voler fare di Vittorini il villain di questa vicenda, i motivi per un’incomprensione e un’antipatia ci sono tutti.

Certamente tra tutti questi fattori, la prossimità di Vittorini al Partito Comunista doveva pesare di più, tenuto conto dell’accoglienza tutt’altro che cordiale riservata ai Ventitré giorni, come s’è visto (e dire che all’inizio del Partigiano Johnny le comuniste Brigate Garibaldi fanno una figura ancor più misera – per quanto Fenoglio non lesini ironia anche verso i badogliani). A parte la raffigurazione di un partigiano tutt’altro che esemplare come il vecchio Blister, abbiamo “Gli inizi del partigiano Raoul”, nel quale un diciottenne, “un ragazzo di paese che i suoi sono possidenti e l’hanno mandato in città a studiare” (notare il tipico uso dell’anacoluto che ritorna nella lingua delle opere d’esordio, e rende così bene una voce collettiva che senza essere dialettale resta popolare): una volta unitosi alla “Seconda Divisione Langhe, Brigata Belbo”, non si sente affatto a suo agio. I partigiani litigano tra loro (chi comunista, chi monarchico), uno di loro lo imbroglia in uno scambio di pistole, si sente un pesce fuori d’acqua, lui ancora un liceale, tra quegli omaccioni rozzi e ignoranti. “Qui per resistere bisogna diventare una bestia!” conclude. Pensa pure di tornarsene a casa: “avrebbe smesso il vestito che aveva indossato la mattina per andare in guerra, avrebbe smesso anche tante idee, ma gli sarebbe rimasto il rispetto di sé, perché da solo s’era tirato fuori dall’orribile avventura nella quale s’era cacciato da solo”. Poi però, dopo un incubo che materializza la sua peggiore paura (essere sorpresi dai fascisti, catturati, fucilati), Raoul resta con i suoi compagni. Come se a legarli veramente non fosse, come voleva una certa immagine stereotipa, un ideale, ma una comune paura, un comune orrore.

Non sono eroi i partigiani di Fenoglio, e forse per questo risultano più vivi e credibili sia delle santificazioni che delle demonizzazioni in “stile Pansa” (sì, perché dall’acritica esaltazione della resistenza si è passati tutt’a un tratto all’acritica condanna dei partigiani come una banda di mezzi delinquenti intenti a vili vendette su gente indifesa – questo trovate ne Il sangue dei vinti e successive opere del giornalista, anche lui piemontese, guarda un po’). Non è un eroe il protagonista di uno dei racconti più forti della raccolta, “Un altro muro”, Max, “badogliano” catturato dai fascisti e gettato in una cella con Lancia, un “garibaldino” (cioè partigiano comunista). Quest’ultimo è diffidente nei confronti di Max, perché ha visto due badogliani liberati “grazie a un cambio che gli hanno combinato i preti della curia”, mentre un garibaldino è stato fucilato senza tanti complimenti. E nell’inizio del racconto è già racchiusa la fine: entrambi verranno messi al muro, ma le pallottole ci saranno solo per Lancia, il comunista, mentre per Max alla fine ci sarà il cambio, ordito da “un prete delle colline”; solo lo spavento, ma non la morte.

Si trattava, tra partigiani e fascisti: scambi di prigionieri, come quello che tenta inutilmente di organizzare il protagonista di Una questione privata, opera postuma di Fenoglio e sicuramente romanzo più maturo (una piccola notazione: il protagonista di questa vicenda si chiama Milton, come il grande John Milton, che visse la ferocissima guerra civile inglese tra 1642 e 1649, schierato coi parlamentari e poi coi puritani; un alter ego di Fenoglio, innamorato della letteratura inglese?). Ma come si vede, i semi di questo e dell’opera maggiore, anche per dimensioni, Il partigiano Johnny, uscito solo dopo sei anni dalla morte dell’autore (nel fatidico 1968, e ancora una volta vien da dire guarda un po’…), stanno nella sua opera prima. Ma questa lotta partigiana feroce, ma fatta a tratti anche di trattative, accordi, scambi, forse non era gradita a chi voleva una raffigurazione semplice, epica, e in bianco e nero. O meglio in rosso e nero.

Come sia, l’opera prima di Fenoglio è anche doppia: perché, non lo dimentichiamo, egli presentò a Einaudi anche La paga del sabato, uscito anche questo postumo, nel 1969: il libro che piacque a Calvino, e anche a Giulio Einaudi, ma che suscitò questo commento di Vittorini: “Diventa film sempre di più, e non sa più essere altro che film. La fine poi non è resa necessaria da niente che sia nella situazione o nei caratteri”. Verrebbe da chiedere alla buon’anima di Vittorini: e dov’è il problema? Oggi il taglio cinematografico non è una vergogna, è una delle legittime opzioni a disposizione di uno scrittore, e si riflette su come il cinema già ai suoi inizi condizionò le avanguardie letterarie di primo Novecento (si pensi a Dos Passos, tanto per dirne uno). Ma bastò il malumore di Vittorini per far finire nel cassetto questo romanzo breve, che racconta il disagio di un ex-partigiano il quale, dopo aver visto uccidere e avere ucciso, non riesce più ad adattarsi alla vita normale, e si lega a un malavitoso, salvo poi riuscire a metter su una sua aziendina di trasporti, morendo infine in uno stupido incidente. Proprio quella fine che “non è resa necessaria da niente che sia nella situazione o nei caratteri”, e grazie a Dio non lo è, con buona pace di Vittorini: nella sua gratuità è un finale terribile e amaro, ma a suo modo provvisto di una sua intima necessità, come a sancire l’impossibilità di tornare a una vita normale dopo esperienze estreme (e chi conosce un attimo la letteratura di guerra sa che questo è un tema cruciale, che si incontra in scritti diversissimi di diversissimi veterani del Novecento…).

Fortunatamente l’interdetto di Vittorini, che morì, ricordiamolo, solo sei anni dopo Fenoglio, non impedì la pubblicazione dall’altra opera prima, seppur postuma. E oggi possiamo leggerci La paga del sabato, e scoprire, ultimo miracolo della letteratura e di un grandissimo scrittore, che ben due racconti dei Ventitré giorni della città di Alba, “Nove lune” ed “Ettore va al lavoro”, altro non sono che capitoli staccati dal corpo de La paga del sabato, e rilavorati fino a farne racconti autonomi, e tra i migliori della raccolta. Anche per questo, volendo parlare degli esordi del grande albese, bisogna necessariamente occuparsi di quel che uscì nel 1952, senza però trascurare quel che dovette ancora attendere diciassette anni per incontrare i suoi lettori.

Messi insieme romanzo breve e racconti, abbiamo in nuce tutto quel che Fenoglio sviluppò fino alla sua morte precoce; tranne forse quell’interferenza audace e geniale tra inglese e italiano che troviamo nelle pagine del Partigiano Johnny e le molteplici deformazioni che in quelle pagine lo scrittore di Alba imprime alla nostra lingua. Ma tra le righe della prosa fenogliana si distingue una matrice che, per linearità e sintesi, non può essere l’italica prosa d’arte, ma nella sua concretezza e pragmaticità fa pensare al grande romanzo inglese, che Fenoglio conosceva come pochi, e senza intermediari; e quelle Langhe selvatiche, barbariche, sono così vicine allo Yorkshire primordiale e tellurico di Cime tempestose, amatissimo dall’albese, che ne scrisse un adattamento teatrale. Insomma, In questi dodici racconti c’è già, a saperli leggere in controluce, la breve e sfolgorante traiettoria di uno dei grandissimi narratori italiani del Novecento. Racconti ruvidi eppure preziosi: diamanti grezzi, da ammirare comunque.

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