Ci sono scrittori che studiano nelle pietre del proprio territorio i destini di un popolo, attraverso i cammini di donne e uomini d’ogni età: dalle (non sempre) agevoli giovinezze all’evidenza talvolta allucinatoria della vecchiaia. Le narrazioni spesso incantano e fanno apparire lontane terre come facilitatrici di fiabe e avventure, e bolle d’avventura in cui i soliti “occidentali”, da Marco Polo in poi, s’ubriacano di effluvi mitici e mistici. Ora ci troviamo per le mani il libro di un autore nato a Gerusalemme: Omer Friedlander riesce, in una varietà di racconti, a far nascere seduzioni dalle sabbie tormentate da guerre logoranti, e a tessere giorni delicati come carte veline in cui si muovono personaggi di forti aspirazioni.
Giovani donne e ragazzi, e “antenati” ben vivi, si muovono in mezzo agli aranceti fra Giaffa e Haifa, si arricchiscono della sacra polpa, tutti belli e pronti all’avvento della primavera. Alcuni racchiudono i ricordi in barattoli colmi di sabbia, mentre con occhi dolci si guardano l’un l’altro. Alcuni vendono ai turisti, o almeno tentano di farlo, bottigliette vuote tintinnanti disposte su un carretto, a loro dire contenenti non un’aria qualunque ma quella molto speciale della Terrasanta: l’aria tutt’intorno che non richiede permessi e soprattutto è gratis. Padre e figlia sono descritti come figure d’innocenza aliena, pressoché finta agli occhi di turisti biondi e perciò favolosa.
Ma ogni racconto di quest’esordio luminoso regala una vertigine a cui pochi frequentatori di regioni mediorientali (Pasolini, Bowles, Schwarzenbach?) sanno arrendersi in modo da accoglierne i privilegi, e le profezie forse felici forse terribili. Ma vere. Almeno quanto i segni e i semi che emergono dalle sabbie, e poi viaggianti su dune e città improvvise. Ci sono segreti portati alla luce da Friedlander, col suo inglese impastato qua e là di lingua ebraica (come sottolinea la traduttrice nella sua amabile nota), famiglie di profughi che appaiono e scompaiono nella luce ondeggiante, naufraghi della “civiltà” su cui la fiaba fatica a respirare ma pur sempre sfreccia sulle rotte che si sciolgono fra una pista e l’altra, fra lamiere arrugginite e splendori fruttiferi.
È la gioventù ricca d’energia a estroflettersi da ogni racconto, qualcosa che noi abbiamo perduto per sempre ma che nei territori di Friedlander ancora è imbevuta di meditazione erratica e corteggiamenti di una natura non contrabbandante bellezza bensì pazzie di spezie, possibilità folgoranti e luci notturne non sempre dovute al cielo stellato. Se il turismo e la guerra sgretola, la civiltà descritta dal nostro scrittore ha quel grado di selvatichezza che rasenta il “puro” scomparso dal corpo degli umani: simile alla morte, rasentandola, ma sempre sul punto di rinascere – tra un furgone Volkswagen e un aranceto al confine delle dune.