Omer Friedlander / Narratore di sabbie, arance e vertigini

Omer Friedlander, L’uomo che vendeva l’aria in Terrasanta, tr. Irene Abigail Piccinini, NNE, pp. 238, euro 18,00 stampa, euro 8,99 epub

Ci sono scrittori che studiano nelle pietre del proprio territorio i destini di un popolo, attraverso i cammini di donne e uomini d’ogni età: dalle (non sempre) agevoli giovinezze all’evidenza talvolta allucinatoria della vecchiaia. Le narrazioni spesso incantano e fanno apparire lontane terre come facilitatrici di fiabe e avventure, e bolle d’avventura in cui i soliti “occidentali”, da Marco Polo in poi, s’ubriacano di effluvi mitici e mistici. Ora ci troviamo per le mani il libro di un autore nato a Gerusalemme: Omer Friedlander riesce, in una varietà di racconti, a far nascere seduzioni dalle sabbie tormentate da guerre logoranti, e a tessere giorni delicati come carte veline in cui si muovono personaggi di forti aspirazioni.

Giovani donne e ragazzi, e “antenati” ben vivi, si muovono in mezzo agli aranceti fra Giaffa e Haifa, si arricchiscono della sacra polpa, tutti belli e pronti all’avvento della primavera. Alcuni racchiudono i ricordi in barattoli colmi di sabbia, mentre con occhi dolci si guardano l’un l’altro. Alcuni vendono ai turisti, o almeno tentano di farlo, bottigliette vuote tintinnanti disposte su un carretto, a loro dire contenenti non un’aria qualunque ma quella molto speciale della Terrasanta: l’aria tutt’intorno che non richiede permessi e soprattutto è gratis. Padre e figlia sono descritti come figure d’innocenza aliena, pressoché finta agli occhi di turisti biondi e perciò favolosa.

Ma ogni racconto di quest’esordio luminoso regala una vertigine a cui pochi frequentatori di regioni mediorientali (Pasolini, Bowles, Schwarzenbach?) sanno arrendersi in modo da accoglierne i privilegi, e le profezie forse felici forse terribili. Ma vere. Almeno quanto i segni e i semi che emergono dalle sabbie, e poi viaggianti su dune e città improvvise. Ci sono segreti portati alla luce da Friedlander, col suo inglese impastato qua e là di lingua ebraica (come sottolinea la traduttrice nella sua amabile nota), famiglie di profughi che appaiono e scompaiono nella luce ondeggiante, naufraghi della “civiltà” su cui la fiaba fatica a respirare ma pur sempre sfreccia sulle rotte che si sciolgono fra una pista e l’altra, fra lamiere arrugginite e splendori fruttiferi.

È la gioventù ricca d’energia a estroflettersi da ogni racconto, qualcosa che noi abbiamo perduto per sempre ma che nei territori di Friedlander ancora è imbevuta di meditazione erratica e corteggiamenti di una natura non contrabbandante bellezza bensì pazzie di spezie, possibilità folgoranti e luci notturne non sempre dovute al cielo stellato. Se il turismo e la guerra sgretola, la civiltà descritta dal nostro scrittore ha quel grado di selvatichezza che rasenta il “puro” scomparso dal corpo degli umani: simile alla morte, rasentandola, ma sempre sul punto di rinascere – tra un furgone Volkswagen e un aranceto al confine delle dune.