Non ho mai amato la definizione di “romanzo-mondo” per indicare quella fiction che ha l’ambizione di descrivere un intero ambiente, sociale o naturale; innanzitutto perché anche le storie più minimaliste costruiscono un mondo, per quanto piccolo, e in secondo luogo: dove situare il confine del romanzo-mondo? Le prolisse saghe familiari che vanno per la maggiore, sono all’interno o all’esterno del termine? E il “realismo magico” – altra categoria-mostro –? I sequel che si moltiplicano come funghi?
Questo titolo del 2014 della scrittrice polacca Olga Tokarczuk, premio Nobel 2018, avrebbe senz’altro i requisiti per essere definito romanzo-mondo: 1114 pagine (tra l’altro, numerate al contrario, come un conto alla rovescia da quella più alta e fino alla prima, in omaggio alla scrittura ebraica che si legge da destra a sinistra), un intreccio di trame diverse, schiere di personaggi, un plot lungo e complesso che “rivoluziona l’immagine della vita religiosa nel XVIII secolo” (da una critica apparsa sul quotidiano Gazeta Wyborcza), e un gioco continuo di riferimenti alla realtà del nostro tempo. E tuttavia, a me pare un lavoro di carattere diverso, decisamente più ambizioso: Tokarczuk non vuole ricostruire il passato, bensì cambiarlo. Dal momento che il romanzo storico e la scienza storica condividono la stessa metodologia, anzi secondo l’interpretazione di Linda Hutcheon sono entrambi “narrativa basata su documenti e altro materiale prodotto in passato”, e di conseguenza la realtà e l’interpretazione della realtà sono la medesima cosa, una nuova ricostruzione del passato equivale a modificarlo.
I libri di Jakub, giustamente coniugato al plurale, data la mole del materiale narrativo, è la rivisitazione di un’eresia che divide e corrode l’ebraismo a metà Settecento, nelle terre tra la Polonia – o meglio, la Confederazione polacco-lituana – e Impero ottomano, che al tempo erano confinanti: i turchi avevano infatti conquistato interamente i Balcani arrivando a minacciare Vienna. Nell’irrequieto mondo ebraico, diviso tra ashkenaziti nelle terre slave e esuli sefarditi in Grecia e Turchia, dove si sono insediati a seguito della cacciata dalla Spagna cattolica, si diffonde un movimento millenaristico che riconosce la venuta sulla Terra dei tre messia ebraici profetizzati nel Talmud. Si tratta di Sabbatai Zevi (1626-1676), Baruchiah Russo (1676-1720) e infine Jakub Leibowicz (1726-1791), che scelse per sé il nome di Jakub Frank, protagonista centrale di questo romanzo.
Intorno a Frank si condensa un movimento mistico, rivoluzionario e riformatore al tempo stesso, che tenta di uscire dalle aporie del giudaismo coniugandone alcuni elementi, sottratti all’interpretazione del Talmud e dei rabbini, con le altre due grandi religioni, l’islamismo e il cristianesimo. Questo movimento di “veri credenti” (così si chiamano fra loro), o “antitalmudisti” (come li chiamano gli ortodossi) che si muove sui confini tra domini ottomani e terre del re di Polonia, attira l’attenzione delle gerarchie ecclesiastiche che intravedono la possibilità di una conversione di massa: migliaia di israeliti che potrebbero essere battezzati, un meraviglioso risultato da presentare a Roma. Ma l’operazione non è così semplice, dal momento che Jakub costruisce nella città di Iwanie una comunità che ricorda molto l’eresia bogumila, già estirpata dai vescovi: tutte le proprietà in comune, rivalutazione del ruolo femminile nella società, e una promiscuità sessuale impensabile per quel secolo.
La vicenda, lunga e complessa benché scritta con uno stile chiaro e trasparente, è riassunta in modo efficace dal titolo-frontespizio che l’editore ha conservato nella suggestiva copertina italiana: “I LIBRI DI JAKUB o IL GRANDE VIAGGIO attraverso sette frontiere, cinque lingue e tre grandi religioni, senza contare quelle minori. Narrato dai MORTI, e DALL’AUTRICE completato col metodo della CONGETTURA, da molti e vari libri attinto, e sorretto inoltre dall’IMMAGINAZIONE che dei DONI naturali dell’uomo è il più grande.” Non può non ricordare il frontespizio dei vari libri nel ciclo dei Sette Sogni: un libro di paesaggi nordamericani, di William Vollmann, che pure compie un’operazione letteraria simile a quella di Tokarczuk; operazione che è limitante definire “romanzo storico”.
Riassumere la trama sarebbe inutile; il grande valore di questo capolavoro è nello stile, nella lingua e soprattutto nelle scelte della Voce dell’autrice. Non sono del tutto gratuite le accuse dei nazionalisti polacchi a proposito della politicizzazione dell’opera: la scrittrice affonda il bisturi impietoso nell’essenza cattolica della Polonia, che ne esce a pezzi, fortemente ridimensionata a favore della grande influenza ebraica sulla cultura e la vita sociale del paese più martoriato d’Europa, che ha territorio e frontiere talmente variabili nel tempo da coincidere solo in parte minima con lo Stato nazionale di oggi.
Salutiamo la Voce narrativa di Tokarczuk come una novità estremamente positiva nel romanzo storico; i personaggi si raccontano al lettore tramite le loro azioni, non con quel punto-di-vista che nella scrittura creativa si chiama “terza persona immersa”; la Voce mantiene comunque sempre un’equidistanza dai protagonisti che ricorda l’imparzialità dello storiografo. La lettura di I libri di Jakub è un piacere difficile da raccontare, da centellinare poche pagine al giorno, pregustando il momento in cui ti siederai tranquillo per aprire il libro e immergerti di nuovo nell’incantesimo della Voce dell’autrice.