Olga Lavrenteva, nata nella città che oggi si chiama San Pietroburgo, ha ascoltato durante l’infanzia i racconti di sua nonna Valja, figlia di Vikentij Survilo. Immagini di una storia famigliare proiettata contro uno degli eventi più tragici del Novecento: l’assedio di Leningrado. Ricordi, memoria collettiva e storia si affiancano, si incontrano, talvolta si carezzano nelle tavole in bianco e nero che seguono lo scontrarsi di una bambina contro una vita durissima, poi adolescente e infine donna, sempre impregnata dei drammi del suo tempo. La storia si mostra sempre con il volto duplice della vita quotidiana e dei drammatici eventi che segnano le persone quando si abbattono su di loro. Una famiglia semplice e felice quella di Valja, figlia di una contadina e di un fervente militante comunista polacco, nato a Survily, oggi in Bielorussia. La mobilità dei confini, la mutevolezza dei nomi delle città segnati dalle ideologie, la rassegnazione della campagna e le opportunità della metropoli, sono una delle domande sotterranee di questa graphic novel, che racconta anche di affetti e di esclusione, di pregiudizi e di paura, di coraggio contro le avversità e di prepotenza del potere.
Operaio in un cantiere navale, il padre di Valja è vittima del primo periodo di epurazione staliniana avvenuto nel 1937. Probabilmente a causa dell’origine polacca e del sempre più opprimente clima di sospetto verso gli “stranieri” creato dalla politica staliniana, viene prelevato dal NKVD e additato come traditore, spia e nemico del popolo. Da quel momento, dalla “disgrazia” come è chiamata nel racconto, la famiglia è soggetta a una crudele emarginazione e all’esilio. Valja dovrà così sopportare l’esclusione sistematica da tutte le forme di aggregazione della società sovietica, la negazione di un lavoro migliore, la mancanza di ogni informazione sulla fine del padre, affettuosamente definito “fervente leninista e comunista convinto” in una lettera disperata e senza risposta inviata al compagno Stalin.
L’esistenza sembra lentamente tornare alla normalità, quando Valja, giovanissima, rientra da sola a Leningrado. Una vita dura e segnata dalla povertà, dall’oblio in cui è caduta la figura del padre, che le consente solo un’occupazione come infermiera all’ospedale carcerario, probabilmente il gradino più basso del lavoro, ed è lì che la coglie la guerra e l’accerchiamento degli alleati fascisti, tedeschi e finlandesi. La storia dei ventinove mesi di assedio, degli 800.000 morti, dell’epica resistenza, fino all’incredibile vicenda del doroga jizni, la via dei rifornimenti che correva sulla superficie ghiacciata del lago Ladoga, sono note, e sono pitturate su uno sfondo che, con grande coerenza, ha sempre in primo piano il rigore autobiografico del punto di vista di Valja. Un punto di vista che con il freddo e la fame, la durezza del lavoro, i bombardamenti viene meno nel rarefarsi delle parole e nel progressivo espandersi del nero nelle tavole. La sopravvivenza, come probabilmente accadde nella realtà storica, è resa possibile dalla solidarietà, dall’aiuto quotidiano, dall’esprimersi dei sentimenti semplici, gli unici praticabili quando la presenza della morte incombe. La grande onestà intellettuale di Lavrenteva si coglie nella capacità di leggere la vita di Valja, segnata dalla profonda ferita dell’ingiustizia politica subita, attraverso gli strumenti dell’affetto e della compassione, senza mai perdere il rigore storico di riportare la Velikaja Otečestvennaja vojna, la “Grande guerra patriottica”, accettandone sia la retorica sia il sincero valore di sacrificio collettivo.
Stalin è insieme oppressore e liberatore, attraverso un resoconto di rara maturità politica che accetta le molte ambiguità della storia sovietica, e che talvolta non è neppure presente nei testi storici specializzati. Survilo riesce a descrivere il tormentato percorso del socialismo sovietico attraverso una vita quotidiana che accetta il confronto con una realtà collettiva fatta di conformismo come di entusiasmo e sacrificio. E la grande abilità della sceneggiatura risiede in questa capacità comunicativa di mostrare la Storia attraverso le reazioni di Valja e di chi gli sta vicino. La rottura dell’assedio e la fine della guerra, nonostante le ulteriori repressioni politiche degli anni Cinquanta, sono l’intrapresa di una vita più tranquilla per la protagonista, anche se la “disgrazia” sarà a lungo uno spettro sempre presente, almeno fino alla morte di Stalin e all’avvio della revisione dei molti processi politici. Il compagno Servilo viene riabilitato e la commozione di Valja è anche la nostra.
Le ultime tavole sono bellissime e descrivono la campagna che ospita gli ultimi anni di Valja, serena e circondata da figli e nipoti. Nell’immagine grande come una pagina Lavrenteva scrive: “Anche la memoria viene ricoperta dalla vegetazione. Tutto si confonde. I dettagli si disperdono oppure svaniscono”. L’intera storia è la ricerca di una sintonia impossibile tra ricordo e realtà, non perché la nonna Valja abbia difficoltà a ricordare. Tutt’altro, il suo resoconto ci è descritto con particolare nitidezza. La complessità che si manifesta nella costruzione di una memoria collettiva dipende da una naturale difficoltà delle nuove generazioni ad accogliere e custodire i propri ricordi familiari (e un autore come Sebald ci ha insegnato la complessità di questo processo). E non è un caso che Lavrenteva sia contemporaneamente autrice e protagonista, per descrivere l’eccezionalità del lavoro “memoriale”, di questa delicatezza che si oppone all’infittirsi della vegetazione sulle case, sugli oggetti e sui segni del passato.
Il disegno è molto bello, come la scrittura che gioca con frequenti tavole impregnate di silenzi. Il bianco e nero sprigiona una grande forza descrittiva attraverso le molte sfumature degli sfondi, come se l’immagine non dovesse finire mai e prolungarsi all’infinito attraverso la perdita dei dettagli. Ci suggerisce che forse siamo noi a non vedere dove il nero e il bianco si confondono, i muri sono soltanto intuiti e oltre ci sono orizzonti e cieli innevati.