Olaf Stapledon / Archeologia del futuro

Olaf Stapledon, Gli ultimi uomini, tr. Antonio Ghirardelli, Castelvecchi, pp. 335, euro 18,50 stampa, euro 8,99 epub

Ci sono scrittori che scrivono romanzi perché hanno in testa grandi idee che vogliono semplicemente far arrivare dove un libro di filosofia non entrerebbe mai. E ci sono scrittori che hanno rivoltato le convenzioni e i generi letterari ma che sono stati rapidamente dimenticati perché la loro prosa è risultata presto antiquata e farraginosa. Olaf Stapledon (1986-1950) appartiene a entrambi questi due generi.

Quando comincia a scrivere The First and the Last Men (1930) è un trentenne arrivato dal Cheshire, con una laurea in Storia Moderna e un dottorato in Filosofia conseguito all’Università di Liverpool.  Ha appena pubblicato il primo libro, A Modern Theory of Ethics (1929), basato sulla sua tesi, il relatore A. M. Carr-Saunders (1886-1966) è un biologo e fervente eugenista (il suo opus magnum, per capirsi, si intitola The Population Problem). Per entrare nello spirito dei tempi – gli anni tra le due guerre mondiali, che accompagnano il declino dell’Impero Britannico e l’avanzata dei nazionalismi in Europa – aggiungiamo che Stapledon ha partecipato come infermiere volontario, non combattente, alla Grande Guerra del 1915-18, uscendo profondamente provato da questa esperienza. Pacifista, dichiaratamente  progressista, è non di meno – come si intuisce già dalle prime pagine del suo libro d’esordio – fortemente impressionato dalle idee di Oswald Spengler, un intellettuale tedesco che con il suo Tramonto dell’Occidente convinse i  contemporanei – e i suoi estimatori, da Thomas Mann a Benito Mussolini – a leggere il mondo attraverso le lenti dei cicli e dei ricorsi della civilizzazione e dei suoi agenti sul campo, le Grandi Civiltà. Riassumendo: un filosofo alle prime armi, di idee progressiste, più a suo agio con la Critica del Giudizio che con i “pulp magazine”, pervaso delle idee prevalenti del suo tempo (eugenetica, crisi della civiltà occidentale, etc.), che di sinistra non erano.

Stapledon, diciamo subito, è un visionario senza mezze misure e The Last Men intende raccontare nientemeno che la storia del genere umano nei prossimi DUE MILIARDI DI ANNI (avete letto bene: 2.000.000.000), un arco di tempo che farebbe impallidire un ciclo di Asimov o di qualsiasi altro autore di fantascienza. Per farlo sacrifica ogni convenzione romanzesca, a cominciare dai personaggi, che in pratica non esistono, i protagonisti sono infatti popoli, fazioni, collettivi, tribù, ma soprattutto la “razza” umana – per usare un termine in voga negli anni ’30 e largamente utilizzato da Stapledon – quando riesce ad auto-percepirsi nella propria totalità. Il narratore è, appunto, l’ultimo uomo, la creatura alla fine del tempo che si rivolge retrospettivamente a noi per ragguagliare gli umani del XX secolo con spiegoni intonati a una prosa per quanto possibile oggettiva, neutra, “saggistica”, salvo poi soffermarsi con partecipazione sui dettagli più crudi e raccapriccianti di questa interminabile epopea.

Stapledon non è un totale ingenuo e come avverte nell’introduzione: “Se mai questo libro venisse scoperto da un uomo del futuro certamente lo farebbe sorridere. Non intende infatti predire il corso degli eventi ma neppure offrire al lettore un’opera di pura fantasia, lo scopo dichiarato è un altro, in realtà assai più ambizioso: “non ci proponiamo come obiettivo né la storia pura e semplice né la pura e semplice narrazione, ma il mito (..) Questo libro non può essere autentico come mito come non può essere autentica profezia, è piuttosto un tentativo di creazione di un mito”. La mitopoiesi, dietro all’involucro della fantascienza speculativa, è appunto il mare in cui Stapledon intende calare il suo vascello letterariamente folle, opponendo una prospettiva vertiginosa e post-umana all’aspro spirito del suo tempo e, in pratica, all’opera di Spengler, che pure omaggia di un abbondante pessimismo storico, pardon cosmico. Come ha osservato Stefano Trucco: “Olaf Stapledon è forse l’autore più importante e meno letto della storia della fantascienza: gli autori della Golden Age si servirono a piene mani della sua fantasia mitologizzante.”

Nella prima parte del libro, forse la meno riuscita, il Nostro risolve una volta per tutte lo scenario geopolitico dei suoi tempi. Per farlo si prende alcune centinaia di anni (tantini per noi posteri saputelli ma una vera inezia rispetto ai due miliardi complessivi), tanto basta perché le potenze continentali – Francia, Inghilterra, Germania, l’Italia fascista – si distruggano a vicenda in un crescendo di sanguinose guerre nazionaliste per lasciare campo libero ai due pesi massimi mondiali, Stati Uniti e Cina. Stapledon, che non ama il materialismo e il presunto infantilismo degli americani, fa di loro il villain di questa prima fase storica, che per inciso si conclude con l’esaurimento delle risorse geologiche naturali, la fine della civiltà petro-carbonifera, e la quasi estinzione del genere umano. Il Primo Uomo – cioè quello che ha preso le mosse dal Pithecanthropus erectus o quello che sia – ha ancora un ultimo singulto di civiltà in Patagonia ma con il solo risultato di contaminare la superficie del pianeta in seguito a una disastrosa guerra nucleare.

Di qui in avanti per il cosmopolita Stapledon le nazioni e il loro sinistro punzone escono definitivamente di scena e tanti saluti. Siamo a un terzo del libro circa, abbiamo appena assistito in slow motion alla catastrofe dell’Antropocene e mancano ancora 17 “uomini”, cioè stadi dell’umanità, per arrivare all’ultimo. È il momento di riassumere brevemente perché la lettura di questo romanzo, se di romanzo si tratta, risulta oggi, (forse) più di ieri, assolutamente sconvolgente. E non solo perché Stapledon  è uno scrittore  che novanta anni fa, invece di occuparsi di letteratura seria, raccontava che la civiltà degli idrocarburi e dell’atomica (che ancora non esisteva) si sarebbe ritorta contro l’homo sapiens sapiens, che di lì in poi avrebbe dovuto ingegnarsi con le energie rinnovabili (eolica, idroelettrica, vulcanica) in attesa di saper padroneggiare il potere “della materia e dell’atomo” cioè poi – traslando dal jargon della fisica “stapledoniana” – la fusione nucleare  “pulita”.

Dire che Stapledon ha inventato il concetto di terraforming e con questo libro lo ha introdotto nella letteratura fantascientifica non rende, ad esempio, lontanamente l’idea. Più importante è capire come lo ha fatto. The last men amalgama in una narrazione sfrenata e brulicante, suggestioni neo-darwiniane e fantasie lamarckiane, mutazioni biologiche e cataclismi ambientali, ma soprattutto storia naturale e storia “documentale”, ovviamente immaginaria, nello stesso libro. Se la parabola umana registra nel suo complesso alti e bassi come un ottovolante, e il suo progresso è percepibile solo temporaneamente e “in ultima istanza”, ogni singolo ciclo, a seguito della crisi ecologica o antropogenica che l’ha preceduto e, in pratica, giustificato, ripercorre più o meno le stesse fasi: da quella primitiva, messianica, devozionale, fino all’apice della sua specifica civilizzazione, dove in genere scienza, arte ed estasi filosofica diventano più o meno la stessa cosa. Anche l’eugenetica – vero e proprio deus ex machina del romanzo – diventa ben presto indistinguibile dalla selezione naturale, le due si danno anzi praticamente il cambio nel portare avanti la “macchina” dell’evoluzione.

Così ai Secondi Uomini, aitanti, armoniosi ma facili alla depressione esistenziale, fanno seguito i Quarti che in pratica sono dei mega cervelli mutati e semi immortali che si fanno servire (e odiare) dai non mutati. I Quinti sono telepati e possono rivivere il passato. I Settimi uomini pipistrello, felici solo quando si sollevano in volo. Tra i decimi e i sedicesimi abbiamo varianti subumane dei più comuni mammiferi che in pratica reinterpretano il Mesozoico ripopolando un pianeta deserto di uomini-volpe e uomini-coniglio. Gli Ultimi Uomini (cioè i diciottesimi) sono praticamente semidei, un incrocio di bestiale e celestiale ma pur sempre con caratteristiche umane, e un livello spirituale che noi comuni mortali non potremmo neppure sospettare “più di quanto un gatto che passeggia per Londra possa sospettare l’esistenza del mondo della finanza o della letteratura”. Del resto gli umani si sono da tempo trasferiti su Nettuno, in seguito all’implosione del Sole e, a metà della storia, hanno già abbandonato la Terra per approdare su Venere. È a questo punto che assistiamo – previo genocidio dei venusiani acquatici a opera dei coloni terrestri – alla prima assoluta di quel classico della science fiction che diventerà in seguito il terraforming, cioè il ricondizionamento dell’atmosfera e della superficie di un pianeta a misura della sopravvivenza terreste. E, vien da dire, in fondo un piccolo passo per Stapledon – che per tutto il romanzo non risparmia le invenzioni narrative – ma uno più grande per i suoi emuli che non sono certo mancati, non solo nel genere fantascientifico, da Carl Sagan a seguire.

All’interno di questa cosmogonica, in cui immerge la storia, umana e postumana, Stapledon affronta anche il rapporto tra genere umano e individuo e, in parallelo, quello con il non-umano. L’individuo nel romanzo non esiste né come dispositivo narrativo né come figura storica ma solo come elemento sostanzialmente residuale del mondo a venire, proteso verso le tensioni e le priorità dell’agire collettivo. Nel transito del tempo, l’individuo è l’attimo che non si può catturare né, soprattutto, raccontare. Dove emerge nell’esposizione e spesso sacrificato come capro espiatorio o come vittima collaterale per il bene superiore del genere umano, anche quando si tratta del 99 % dei terrestri che non potranno raggiungere Venere per salvarsi. Stapledon, che ha in odio i nazionalismi etnici e immagina un futuro libero dai contrassegni biologici e culturali “razzializzati” nella sua epoca, sembra qui trasferire al suo “Volk” cosmico e superumano le prerogative che legano l’individuo all’istituzione totalitaria del Novecento, seppure in nome della solidarietà di specie.

Ma se guardiamo alle premesse filosofiche del romanzo, il suo verso è sempre orientato verso la consapevolezza di una totalità ogni volta più estesa e interconnessa (di gruppo, di specie, cosmica, ecc.) e verso il superamento della cognizione singola, monoculare.  Nelle civiltà più avanzate l’individuo arriva a fondersi con i suoi simili – telepaticamente, spiritualmente, sessualmente, ecc. – per dare vita alla coscienza aggregata di un super-individuo, alla mente collettiva, al general intellect. L’edificio identitario di The Last Men appare del resto strutturalmente instabile e provvisorio già nelle sue fondamenta, l’individuo emerge dal flusso organico del molteplice, un fiume senza fine di differenze e di spore che da luogo al vivente e che, nel caso degli Ultimi Uomini, rende problematica e futile anche la classificazione di genere, in seguito alla “differenziazione dei due antichi sessi in una nutrita serie di subsessi”.

Il mondo descritto da Stapledon è, definitivamente, un’eterotopia che mette in crisi anche ogni tentativo di dare vita a una tassonomia antropocentrica. I suoi marziani offrono in questo senso un esempio lampante, anni luce dagli extraterrestri della fantascienza popolare dell’epoca: non un esercito di alieni ma una nebbia evanescente di microorganismi intelligenti interconnessi e configurati in un’entità temporanea di ordine superiore. Non a caso i terrestri, che per secoli non ne riconoscono la natura intelligente, li scambiano per un agente atmosferico maligno, contraccambiati dai marziani che, a loro volta, si dannano nella vana ricerca di un’entità nascosta che, da dietro le quinte, manovri e dia un significato a tutti quegli assurdi burattini umani.