“Un diario di viaggio, un tentativo di mappare i paesaggi mentali e terreni di ciò che può valere come natura in alcune lotte locali e globali”. The promises of monsters è un breve saggio che richiama urgenze e schemi del 1992 in cui è stato concepito, ma può benissimo essere letto – da noi, oggi – come capsula temporale, reperto SF di un futuro non troppo remoto. Sei anni dopo il celebre Manifesto Cyborg, Donna Haraway ha da poco dato una scossa al mondo accademico con Primate Visions: Gender, Race, and Nature in the World of Modern Science”, una riflessione femminista e antirazzista, sull’immaginario scientifico che insegue i concetti di genere, razza e cultura nel retropensiero della ricerca, in particolare della biologia, sua prima specializzazione. Dopo Thomas Kuhn e Paul Feyerabend, i cultural studies di Donna Haraway si collegano alla nuova stagione di epistemologia sociale e alle cosiddette “Science Wars” degli anni Novanta. Il mondo scientifico si spacca e una parte non la prende benissimo, la critica, scontata, è di relativismo, fuorviante come del resto l’etichetta di “post-modern” applicata all’autrice (che semmai definisce a-moderna la sua ricerca filosofica).
In Promises, ora tradotto per i tipi di Derive Approdi, Donna Haraway torna sul luogo del delitto, ma il perno del discorso questa volta ruota attorno a un unico oggetto: la natura. Definita “uno di quegli oggetti impossibili che non possiamo non desiderare” è soprattutto “un luogo in cui ricostruire la cultura pubblica”. La valenza politica, radicalmente non essenzialista, di questo percorso è subito chiarita: “La natura è un luogo comune, una potente costruzione discorsiva che si concretizza nelle interazioni tra attori semiotici e materiali, umane/i e non.” Sottrarla all’orizzonte dell’umanesimo e della produzione, che ha ridotto il mondo a risorsa, è compito perseguibile – seguendo Bruno Latour – solo con il concorso di molteplici attrici/ori, non tutte/i umane/i. La natura è infatti un assemblaggio di mostri e di creature ‘inappropriate’, almeno per i parametri riproduttivi e per i “noiosi e bipolari termini degli ominidi”. Dopotutto – parafrasando Simone de Beauvoir – organismi non si nasce, si diventa.
La dimensione discorsiva si nutre di storie, procede in una “conversazione turbolenta”, in equilibrio tra la decostruzione del canone scientifico e la potenza trasformativa dell’immaginario. Al centro del saggio un quadrato semiotico non convenzionale (“quadrato cyborg”), formato da quattro quadranti, all’incrocio di due assi, Reale / Virtuale e Interno / Esterno. Nel quadrante Terra (Spazio Reale) si indaga la natura nella narrazione neocoloniale, che condanna l’indigeno, l’ambientalismo conservativo dei commercials, il Nuovo Mondo della National Geographic Society. Nel quadrante extraterrestre (Spazio Esterno) lo sguardo dal satellite dello “scimponauta” contende a John Glenn – di nuovo primati e umani – la visione del pianeta azzurro, l’istantanea che rimbalza e diventa t-shirt della “Madre Terra”, al centro di una complessa guerriglia semiotica. Nel terzo quadrante, (Spazio Interno) troviamo il corpo biomedico, il corpo vittorioso e i suoi confini, le semantiche dell’invasione e della difesa (immunitarie, personale, culturale, etc.), la sua trasposizione disneyana, “le possibilità di vita e morte distribuite in modo ineguale”, le pratiche solidali della AIDS Coalition, contro i monopoli della conoscenza, venute alla luce solo pochi anni prima.
Infine, lo Spazio Virtuale della Fantascienza, dove “virtuale” è la virtù di produrre effetti di realtà in uno spazio interconnesso e condiviso, una concettualizzazione resa popolare proprio nei primi anni Novanta da Jason Lanier e dalla prima generazione VR. La figura guida è questa volta Lisa Foo, la protagonista – hacker migrante cino-giapponese, corpo cyborg acquistato appena arrivata negli Stati Uniti – del racconto “Press Enter” di John Varley (Premio Nebula e Hugo nel 1986). Grazie alle sue abilità Lisa si muove attraverso il tecno-sistema che crede di poter controllare. “Press Enter”, storia paranoica e cyberpunk, non potrebbe avere un lieto fine, ma può offrire una mappa di articolazioni tecnologiche, corporee etc. per aiutarci a guardare avanti. Detta bene: “Amo la FS che mi spinge ad impegnarmi attivamente con immagini, trame, figure, dispositivi, mosse linguistiche, in breve interi mondi, non tanto perché risultino ‘giusti’ quanto per farli muovere ‘in modo diverso’”