Thomas H. Ogden / La Psicanalisi è Letteratura

Thomas H. Ogden, Riscoprire la psicanalisi. Attraverso la lettura creativa, tr. Carlo Casnati, Mimesis, pp. 318, euro 26,00 stampa, euro 17,99 epub

Che cosa è la Psicanalisi? Ma soprattutto, che cosa doveva essere nelle intenzioni del suo inventore e fondatore, Sigmund Freud? Una cosa sappiamo di certo, a proposito della psicanalisi: sappiamo che cosa Freud non voleva che fosse, cioè una disciplina medica, una specializzazione, una istituzione irrigidita nel suo dogma. Freud si preoccupava anche che la psicanalisi non rimanesse, semplicemente, una questione confinata all’interno dell’ebraismo, che rimanesse una questione ebraica, un capitolo del messianismo ebraico. Eppure, nonostante questi suoi sforzi per svincolare la psicanalisi dalla questione ebraica, Freud è profondamente immerso nella cultura ebraica: lo dimostra la centralità della paternità nella sua elaborazione teorica, il suo atteggiamento simile al Dio del vecchio Testamento, estremamente geloso e irascibile, testardo nelle sue scelte, a volte arrogante ed estremamente esigente con il suo Popolo Eletto (cioè i suoi discepoli), cui non risparmia punizioni e sofferenze indicibili. Ecco, Freud ha lasciato un suo contributo originale anche in questo campo. Freud è stato anche questo, colui che ha cercato di revisionare uno dei pilastri della religione ebraica, cioè la figura di Mosè, negando che fosse ebreo, e allo stesso tempo ha tentato di revisionare anche la mitologia greca classica, con la sua originale reinterpretazione del mito di Edipo.
Basandosi sui suoi testi, leggendoli creativamente come ci suggerisce di fare Thomas H. Ogden in questo libro, sarebbe possibile fondare una nuova teologia ebraica sul narcisismo primario di Dio, un Dio che è stato costretto a creare il Mondo e l’Universo, un qualcosa di altro da sé, di esterno da sé, per non ammalarsi di narcisismo, per non essere costretto per l’eternità a contemplare la sua stessa immagine, la sua stessa perfezione. All’inizio della Creazione ci fu dunque la creazione di un vuoto, che portò a una sorta di ferita narcisistica all’interno dell’Essere Supremo. Utilizzando il linguaggio di Freud, si potrebbe dire che all’inizio l’investimento libidico di Dio era rivolto soltanto verso se stesso, ma questo investimento libidico era così sovrabbondate che alla fine, in qualche modo, Dio fu costretto a uscire da sé per evitare di ammalarsi di narcisismo. Di qui la Creazione-Catastrofe di cui parlano alcuni gnostici, un concetto ripreso da Harold Bloom nella sua originale teoria della creazione poetica. In fondo è ciò che accade nella vita di ogni individuo: arriva un momento in cui è necessario rivolgere i nostri investimenti libidici sugli altri e non più esclusivamente verso noi stessi, se non ci vogliamo ammalare.
Freud cambiava spesso idea a proposito della sua teoria, anzi, una delle cose più straordinarie dei suoi scritti è che, leggendoli, riusciamo a cogliere il ragionamento di Freud nel suo farsi, cioè l’elaborazione e la modificazione delle sue teorie nel momento stesso della scrittura, nel momento stesso in cui Freud le stava mettendo sulla pagina. Spesso, nei saggi di Freud, si parte da un’affermazione per poi sfociare alla fine del saggio nella negazione di questa affermazione, arrivando ad affermare l’opposto di quanto era stato enunciato all’inizio.
Ed è questo il segreto della vera e propria mitopoiesi e della grande originalità di Freud, una originalità che Ogden, psicoanalista e scrittore, ci fa scoprire leggendo con noi e rileggendo Freud nel corso del suo libro. “Alcuni scrittori scrivono ciò che pensano, altri pensano ciò che scrivono”, scrive. Freud, secondo lui, fa parte di quest’ultima categoria: il suo pensiero si fa trascinare dalla scrittura; di qui le sue false partenze, le sue incertezze, le sue inversioni di pensiero. Il pensiero di Freud muta continuamente, si trasforma nel momento stesso in cui Freud scrive. Per fare un esempio tra i più clamorosi, le conclusioni cui giunge alla fine di Al di là del Principio del Piacere (1920) contraddicono apertamente ciò che aveva affermato all’inizio del suo saggio.
Leggendo le opere abbiamo l’opportunità straordinaria di ascoltare Freud che pensa, che pensa mentre scrive, che forma il suo pensiero nell’atto di scriverlo, di cogliere il pensiero nel momento del suo farsi. Si potrebbe dire che, da quando Freud ha scritto le sue opere e ha elaborato la sua teoria psicanalitica, noi siamo rimasti intrappolati dentro le sue idee, non riusciamo più a immaginare la nostra realtà psichica senza pensare all’inconscio, cioè a un’idea che un giorno è venuta a Freud e che grazie alla sua forza mitopoietica si è imposta con la forza, la forza di quelle idee che sono in grado di cambiare il mondo, di entrare nelle nostre menti e rimanerci per sempre. Non riusciamo più a pensare ai nostri stessi processi mentali se non tramite il potentissimo tropo dell’inconscio, a partire dal quale Freud e sua figlia Anna hanno elaborato una vera e propria nuova retorica che ha plasmato il nostro modo di pensare, il nostro modo di scrivere e la nostra stessa esistenza quotidiana. Siamo ancora prigionieri della fatticità di Freud, intendendo qui il concetto di fatticità proprio come la intendevano alcuni grandi filosofi del Novecento, per esempio Martin Heidegger. Freud rappresenta ormai un punto di partenza imprescindibile per ogni discussione sulla nostra realtà psichica. Come scrive lo stesso Ogden, “Freud ha istituito un nuovo modo di pensare l’umana esperienza che ha dato luogo niente di meno che a una nuova forma di soggettività umana”. Dunque non possiamo più sfuggirgli.
In questo libro si ripercorre la storia di alcune delle teorie di Freud, ma soprattutto si analizza con grande passione la novità dirompente della psicanalisi, cioè il suo metodo straordinario di arrivare alla verità. Il metodo scaturisce dall’uomo, il metodo nasce dalla personalità stessa dell’analista. Freud, come il capo di una setta di iniziati, ci dice che il metodo della psicanalisi in fondo non si può spiegare, ma che il metodo siamo noi, cioè ognuno di noi aspiranti psicanalisti deve trovare la sua strada verso la psicanalisi: dobbiamo cercare dentro di noi la nostra verità, analizzando noi stessi prima di poter analizzare gli altri. Lo stesso Ogden sottolinea le affinità tra il pensiero, il metodo di Freud, e il trascendentalismo americano, il quale afferma, tra le altre cose, che non c’è altro metodo al di fuori di noi stessi. Siamo molto vicini al pragmatismo di Ralph Waldo Emerson, quello che si chiede di fronte a un testo: “Che cosa posso fare con questo testo? Che cosa posso fargli dire?” Diceva Emerson, citato da Ogden: “In ogni opera di genio i nostri pensieri rifiutati ritornano a noi con una certa maestà alienata”. Il segreto della psicanalisi sta tutto qui, nell’ipotizzare che ci siano nel nostro inconscio dei pensieri rifiutati che sono sempre lì, pronti a riemergere alla coscienza in tutta la loro “uncanniness” (il perturbante), in tutta la loro maestà alienata. Ecco perché continuiamo a leggere Freud, ecco perché continuiamo ad andare a cercare i nostri pensieri rifiutati nell’Opera di uno scrittore e di un “mythmaker” geniale quale è stato Freud.
Dunque la psicanalisi non è una scienza, tantomeno una scienza medica, e non segue un metodo scientifico. Eppure, se proprio di scienza si vuol parlare, potremmo definirla una scienza della parola, del linguaggio. Non a caso alcuni critici letterari, come Harold Bloom, hanno ripreso il sistema dei meccanismi di difesa di Freud – così come è stato approfondito ed elaborato dalla figlia Anna – come base per una nuova retorica basata sull’ambivalenza del poeta tardivo nei confronti del suo precursore, elaborando una nuova teoria dei rapporti revisionistici che si instaurano tra la poesia tardiva e la poesia che la precede, che riesce ad affermarsi proprio negando o capovolgendo o revisionando o addirittura appropriandosi della voce del poeta precursore. Un fenomeno che si verifica spesso, per esempio, tra due grandi poeti americani come John Ashbery e Wallace Stevens, tanto che a volte ci rendiamo conto che alcune delle poesie di Ashbery avrebbe potuto benissimo scriverle Stevens, e in questo caso Ashbery vince su Stevens, pur pagando un prezzo molto alto in originalità.
In questo suo libro, che affascina per la sua capacità di analisi della scrittura e che sottolinea costantemente l’apporto creativo del lettore dei testi psicanalitici alla psicanalisi stessa, Ogden analizza i resoconti clinici e i testi teorici di Susan Sutherland Isaacs, Melanie Klein, Wilfred Ruprecht Bion, Ronald Fairbairn, Donald Woods Winnicott, Hans Loewald, Harold Frederic Searles, ma anche di James Grotstein, tutti autori e psicanalisti che hanno cercato di rinnovare le teorie di Freud, ma soprattutto la pratica analitica, ancorando costantemente le loro teorie alla pratica clinica con i pazienti. Questi grandi psicanalisti hanno saputo rinnovare la psicanalisi senza mai dimenticare l’importanza della scrittura e della lettura in questo costante processo di rinnovamento, tramite il dialogo con il paziente e tramite la lettura creativa che non solo gli specialisti, ma ognuno di noi può fare dei testi della psicanalisi, della narrazione di questi casi clinici, contribuendo in questo modo ad arricchire i testi che stiamo leggendo. I più consapevoli tra questi analisti infatti mostrano costantemente un atteggiamento che si potrebbe definire socratico: l’analista è un soggetto che è “supposto sapere” qualcosa che potrà portare alla guarigione del suo paziente, eppure egli è il primo a sapere di non sapere, e come dice Bion, ha bisogno di disimparare ogni volta ciò che ha appreso in tanti anni di studio dei testi di psicanalisi e in tanti anni di pratica clinica, per essere il più possibile ricettivo a ciò che il paziente sta cercando di dire, di esprimere. È il paradosso della psicanalisi: “qualcuno che si suppone sappia insegna a qualcuno che desidera sapere che cosa significa non sapere.” (Ogden, p. 87)
L’analista deve in qualche modo tirare fuori dal paziente ciò che il paziente non riesce ad esprimere, deve ascoltare il paziente, deve imparare dal paziente, e per far ciò deve svuotarsi completamente da qualsiasi preconcetto che le sue letture psicanalitiche o la sua pratica clinica possano aver stratificato nella sua mente. La psicanalisi mostra dunque di essere più che una teoria una vera e propria prassi interpretativa, anzi mostra un metodo nel suo farsi, un significato che si crea nella seduta psicanalitica e che prima non esisteva. Ogni paziente richiede uno sforzo di elaborazione ulteriore della teoria psicanalitica, proprio come Freud, analizzando ogni nuovo caso, era costretto a modificare le sue convinzioni sull’inconscio, sul ruolo delle allucinazioni, sulla fantasia, sulla pulsione, etc… Di più, ogni volta lo psicanalista è costretto a rimettersi in gioco non solo come psicanalista, ma come essere umano con la sua coscienza e con le sue passioni ed emozioni, evitando ogni volta di farsene travolgere, ma è impossibile entrare in sintonia con il sé del paziente senza in qualche modo farsi coinvolgere dalla sua storia, senza provare empatia per la sua situazione. Ecco perché non è possibile una psicanalisi disincarnata, non è possibile ipotizzare uno psicanalista disincarnato, uno psicanalista-robot, come immaginò Philip K. Dick in alcuni dei suoi romanzi. Lo psicanalista è immerso come uomo in carne ed ossa, con i suoi sentimenti e le sue emozioni, nella situazione analitica, non può evitare un certo grado di coinvolgimento, il cosiddetto controtransfert, e non può evitare di rimettere in discussione ogni volta se stesso e l’intera costruzione teorica della psicanalisi. Ecco perché è importante continuare a leggere la psicanalisi, contribuendo in questo modo al suo rinnovamento e al suo arricchimento. Dobbiamo continuare non a studiare e a pensare la psicanalisi, ma a leggere, a scrivere e in definitiva a sognare la psicanalisi.
Come diceva Emerson: “Prendi il libro nelle tue mani e leggi con gli occhi bene aperti: non troverai mai ciò che ho trovato io.” Prendete questo libro in mano, e cominciate a sognare.