Occorre dirlo subito, Legami di Sangue (Kindred, 1979) di Octavia Butler (1947-2006) è un romanzo totale, racconto fantastico e fantascientifico, storico e dell’orrore, persino romanzo di formazione profondamente politico e femminista, che non cede mai al didascalico, né a tesi preconfezionate. Una narrazione travolgente che ci conduce per mano dove non vorremmo essere. O meglio, dove non vorremmo mai essere stati né, soprattutto, nati: una piantagione schiavista nel Maryland, Stati Uniti, nel 1776.
La Storia è attraversata da interrogativi profondamente esistenziali: fino a che punto, persino nel momento del pericolo quando siamo davanti a una questione di vita o di morte, possiamo fidarci di uno sconosciuto? Qualunque sia la risposta, ci ritroveremo a camminare lungo una linea sottile tra condanna e salvezza, con una sgradevole sensazione di paralisi, soprattutto se lo sconosciuto è un bambino bianco figlio del proprietario schiavista di una piantagione e la persona in pericolo è una donna nera, giunta nel passato dagli anni Settanta del Novecento non si sa bene attraverso quale misterioso meccanismo. A maggior ragione se, ben presto, si scopre che quel bambino bianco, Rufus Weylin, sia in realtà un antenato della giovane donna nera, Dana Franklin: libera, intellettuale, moglie dello scrittore bianco Kevin Franklin che, in qualche modo, dovrà fare anche lui i conti con quel passato.
Con la vicenda di Dana scopriamo chel’origine della sua famiglia – nella quale bianchi e neri si sono incontrati sotto le regole del dominio dei primi sui secondi – non è che, per estensione, la vicenda della fondazione dell’intera comunità nordamericana.
Attraversando i secoli, grazie all’espediente narrativo del viaggio nel tempo, Dana affronta la questione dell’autodeterminazione e della libertà femminili, scoprendo come, suo malgrado, le questioni di genere siano strettamente collegate a quelle di razza e di classe: nelle frustrazioni del lavoro domestico e di cura che genera invidie e sospetti tra le schiave destinate al lavoro nei campi e quelle relegate in casa, nella subordinazione al dominio del suprematismo bianco mai priva di gesti intimi e pubblici di ribellione delle schiave nere che si ritrovano a farsi pure carico della formazione di un giovane bianco figlio del padrone di una piantagione e dedito allo stupro sistematico di una coetanea nera, Alice. E così le certezze emancipazioniste stesse del futuro – a duecento anni dal 1776 dalla Dichiarazione di Indipendenza americana, scelta quasi sarcastica – sembrano vacillare sotto i colpi di un impietoso sguardo dal passato: Dana vive il dissidio di doversi riposizionare anche nel suo tempo attraverso le tracce di una storia di violenza. Viaggio dopo viaggio nel passato, assistiamo all’inesorabile degradazione del corpo della protagonista: la sua trasformazione nel corpo di una schiava.
E tuttavia, la donna emancipata – istruita, con i capelli corti e i pantaloni, riottosa all’ordine materiale e discorsivo della piantagione – deve affrontare le accuse di “bianca” o di “negra bianca” che, di volta in volta, le piovono addosso dal giovane Rufus e dalle altre donne nere costrette in schiavitù. Improvvisamente, sulla linea del colore, ci appaiono chiarissimi i tanti nomi del privilegio: istruzione, distinzione, libertà di espressione, rifiuto di sottostare a regole inique e umilianti. L’accusa di negra bianca, poi, le viene urlata in faccia dalla giovane schiava alla quale Dana ha salvato la vita. Perché tutto nella piantagione si fa stridente: violenza e sfruttamento, binomio che struttura l’intera società americana nonché la raffigurazione letteraria, sfondo ineludibile che lettori e lettrici sono costrette ad attraversare, mordono le carni, esattamente come i cani usati dagli schiavisti per massacrare donne e uomini neri che hanno tentato la fuga e la liberazione senza fortuna.
Sul finire del romanzo, la protagonista – nonché voce narrante e punto di vista dell’intero testo – prende atto che “la schiavitù era un lento processo di intorpidimento”: non soltanto soggezione e violenza, dunque, ma annientamento psicologico totale.
Se all’inizio dei viaggi nel tempo, Dana e Kevin constatavano quanto, tra tutte le epoche in cui sarebbero potuti finire, quella fosse “una delle più tremende”, al ritorno nel futuro, dopo eventi spaventosi e dolorosi, Dana rileva che:
“L’epoca, l’anno era tutto giusto, ma la casa era straniante. Mi sentivo fuori luogo perfino nel mio tempo. L’epoca di Rufus aveva una realtà più nitida, più potente. Il lavoro era più faticoso, gli odori e i sapori erano più forti, il pericolo più intenso, il dolore più violento… L’epoca di Rufus mi costringeva ad affrontare prove che non avevo mai affrontato, e rischiavo di morire se non mi dimostravo all’altezza. Era una realtà forte e vigorosa, che la dolce comodità di quella casa, di quel presente, con tutti i suoi comfort, non sarebbe mai riuscita a eguagliare.”
Questa overdose di corporealtà, verrebbe da dire, in cui le frustate inferte ai neri sono un vero crescendo, mette in evidenza forse quanto il 1976 fosse tutto sommato un anno quasi anestetizzato.
E sotto questa luce anche la pubblicazione di questo romanzo da parte di SUR acquisisce un significato anche politico. Nell’anno del ritorno del movimento Black Lives Matter, che ha riportato il conflitto di razza, genere e classe per le strade, contribuendo in maniera decisiva alla sconfitta politica prim’ancora che elettorale di Donald Trump e del suo consenso nei ranghi del suprematismo bianco e del neonazismo popolare, Octavia Butler ci restituisce un’umanità potentissima e dolente e lo fa di nuovo – la prima traduzione parziale nella collana mondadoriana di Urania risale al 1994 – in italiano. Scelta di politica editoriale avveduta e preziosa, perché offre ad un pubblico potenzialmente davvero molto vasto una storia avvincente che illumina scenari di cambiamento striato di contraddizioni. Che sono anche, ancora, le nostre.