Ocean Vuong / Sopravvivere alla nostra unica vita

Ocean Vuong, Il tempo è una madre, tr. Damiano Abeni e Moira Egan, Guanda, pp. 176, euro 19,00 stampa, euro 9,99 epub

Il ritorno alla poesia dello scrittore vietnamita-americano di lingua inglese Ocean Vuong (1988), dopo l’esordio narrativo di On Earth We’re Briefly Gorgeous (Brevemente risplendiamo sulla terra, La nave di Teseo 2020) grazie ai tipi di Guanda, è emotivamente travolgente: una silloge che indugia in struggimenti e intensità. La precedente raccolta Night Sky with Exit Wounds (Cielo notturno con fori d’uscita, La nave di Teseo 2017) si chiudeva, significativamente, con i versi di Devozione: “Solo sentire / ciò appieno, ciò / nella sua interezza, come la neve / tocca la pelle nuda – & è / all’improvviso, neve / non più”, consegnandoci un’immagine ricorrente nei versi di Vuong: la caducità, il dissolvimento, lo scioglimento, che sono del resto limpidamente richiamate in Nessuno sa la strada per il Paradiso: “Sei un ragazzo o una ragazza / o una traduzione dell’acqua frantumata? Non / importa. Forse l’estinzione / è temporanea. / Pioggia nell’attimo / che tocca terra”. L’acqua o la neve che mutano al contatto con i corpi o con la terra: il passaggio di stato come metafora di esistenze trasfigurate nel movimento, in un viaggio senza ritorno che prevede trasformazioni permanenti.

Il ritorno costante della neve è una rappresentazione dell’ostilità di un clima che accoglie la famiglia di migranti vietnamiti di Vuong nel freddo, impettito e bianco (sia da un punto di vista climatico e sia razziale) del New England. In una performance pubblica nella quale Vuong recita la toccante Niente, la figura minuta e dalla voce flebile ma ferma del poeta rende omaggio al New England e alla sua neve onnipresente, dichiarando che l’ispirazione per quella poesia nasce durante un’ora trascorsa nella stanza di Emily Dickinson, che nel New England ha trascorso la sua intera esistenza.

Dickinson è ben presente in questo testo, nella scrittura ellittica e piena di spezzature del verso che producono accostamenti dirompenti di aggettivi e sostantivi e una moltiplicazione prismatica dei significati. Occorre leggerli e rileggerli questi versi, in silenzio e a voce alta, facendo attenzione sia alle interruzioni e sia alle concatenazioni, abbandonandosi alle lacerazioni e ai teneri tentativi di sutura. Attraversando vite in transito – perdute, ritrovate, spezzate, ricostruite e infine sparpagliate per il cosmo – la poesia di Vuong dà forma a una materia palpitante e ruvida: la carta si fa carne e stratifica vicende ed esperienze centrate sul dolore, sulla distanza e sulla perdita.

Vi è in questi versi anche una qualità narrativa, nella quale trovano posto l’intreccio tragico della Storia che lega Stati uniti e Vietnam, Stalin e Auschwitz, nonché la lunga genealogia migratoria che unisce Stati uniti ed Europa: frammenti di vita personale e politica (eventi, persone, relazioni). C’è posto per versi compassionevoli dedicati al lavoratore di McDonald’s in lacrime dopo il turno di lavoro nel giorno di Pasqua (L’ultima reginetta del gran ballo della scuola in Antartide) e per lo struggente e rutilante racconto di un incidente che vede coinvolto il poeta, suo padre e il suo cane (Leggenda americana): vera allegoria di una distruzione, di una fuga e di una liberazione (l’uscita dai rottami dell’auto capovolta) delirante, dolorosa e commovente, in un zig zag barcollante e incerto tra risentimento e amore. Perché, in fondo, la poesia di Vuong è un invito disarmante a sopravvivere all’unica vita che abbiamo (avuto) con un compito tragico: attraversare il dolore custodendo quanto di più gioioso e significativo raccogliamo nell’incontro con l’altro.