Per addentrarsi in questo saggio di Carlo Carboni, docente di Sociologia della comunicazione e delle nuove tecnologie all’Università Politecnica delle Marche, occorre partire dalle sue “Conclusioni” e dall’assunto che le “Nuove Tecnologie” siano il “driver” che guida ogni aspetto della vita sociale. E occorre anche ammettere che ne siamo condizionati anche quando crediamo di stare costruendo autonomamente un’immagine di noi in Rete e con la Rete, in un ambiente dove riusciamo ad essere quell’“io” interessante, attraente o anche semplicemente presentabile che non riusciamo più a essere in presenza.
Carboni invita a riflettere su quanta consapevolezza ci sia nelle nostre vite e nelle nostre relazioni sociali sugli effetti delle nuove tecnologie, chiedendosi e chiedendoci quanto siamo disposti a rinunciare pur di mettere in atto una sorta di ecologia delle nostre vite da tutto ciò che ci offrono i tanti dispositivi che abitano la quotidianità. Del resto, le grandi multinazionali degli algoritmi contano proprio sulla nostra dipendenza da beni e servizi per succhiarci tutto: privacy ed emozioni.
Il volume attraversa l’ambivalenza radicale tra fascino della tecnologia e paura delle profonde trasformazioni che intervengono – la sorveglianza e il controllo, per esempio –, sondando l’inesauribile e tragico conflitto tra aspetti utopici e distopici dell’ultima rivoluzione tecnologica, ovvero il superamento dei limiti imposti all’essere umano dalla natura contro le nuove forme di schiavitù.
Nella premessa al volume intitolata “Zhejiang”, che esordisce raccontando della presentazione di un robot antropomorfo perfettamente bilingue e capace di sostituire l’essere umano anche in mansioni cognitive, Carboni bolla come “molto romanzesca” e improbabile la proposta di un “dividendo sociale tecnologico” come risposta alla cosiddetta “fine del lavoro” (e resta da capire come ridistribuire i frutti dell’automazione che ingigantiscono le ricchezze di pochissimi).
Sposando la tesi di Erik Brynjolfsson, Andrew McAfee e altri, incentrate su un’alternativa a visioni manichee esclusivamente utopiche o distopiche grazie all’intervento di politiche pubbliche, Carboni pensa a una strada non catastrofista per arginare il crollo occupazionale e l’impoverimento delle classi lavoratrici. Resta tuttavia difficile immaginare quali effetti positivi possano sortire politiche intermedie, se solo si pensa al rapporto inversamente proporzionale tra valore monetario delle grandi multinazionali dell’Informatica e numero di persone occupate.
Se è vero, come ribadisce giustamente Carboni, che i media elettronici hanno contribuito alla liquefazione dei legami sociali, è pur vero che scrivere di questo saggio nel mezzo della profonda crisi sanitaria del Coronavirus induce a nuove riflessioni, se non a ripensamenti. Il mantra del “distanziamento sociale” dei mesi di quarantena imposti per decreto governativo ci hanno messo davanti al fatto che la “magia nera” tecnologica – per riprendere l’ambivalente e affascinante metafora del titolo – ha permesso a centinaia di milioni di persone di tenere in piedi relazioni. Videochiamate, chat, social media: tutto ha attraversato esistenze divise dando l’illusione (necessaria) di una ricomposizione possibile. Nonni e nipoti, docenti e alunni, genitori e figli lontani, il sexting degli amanti distanti, le videochat multiple per un aperitivo con gli amici costituiscono un’articolata fenomelogia sociale che pare aver dato un nuovo e più concreto significato relazionale alle tecnologie del dominio. Pagine di affetti nel nostro romanzo distopico.