Giovanna Sicari pubblicò Sigillo nel 1989 con Crocetti. Nessuna nota accompagnava il volume, tranne una stringata notizia in cui si spiegava che la sua prima raccolta, Decisioni, era uscita tre anni prima per le edizioni Barbablù di Siena. Milo De Angelis l’aveva presentata in quell’occasione. I viaggi fra Roma e Milano si moltiplicavano e Giovanna, oltre a conoscere il suo futuro marito, comprese un’altra periferia, molto più a nord dell’Urbe e ancora di più della nativa Taranto.
Le linee di fuga, dalle mura di una città al mondo intorno, hanno sempre sbilanciato la sua esistenza verso una passione d’esodo clamoroso: in poesia e nella vita, seduta alla scrivania davanti al quaderno o camminando vorace lungo strade e linee ferroviarie con un fardello di parole storiche. In entrambi i casi lo sguardo gremito di visioni, e di volontà, e di desiderio fortissimo di poesia. Unito alla brama di veder trionfare l’umano, e di sorridere con l’impeto di certi momenti, che gli amici conoscevano e che mai hanno dimenticato. Poesie nate da notti e giorni consumati nel mezzo dell’Italia, in quel centro comune a molte città, un po’ stracciato ma sempre ricco di energia nascente, pieno di un’umanità che l’amato Pasolini considerava rovinata e poi scomparsa. Dopo di che Giovanna si rannicchiava fra le braccia dell’altrettanto amata Amelia Rosselli, lasciando libera la propria grandezza di poetessa e pensatrice. E intanto iniziava a lottare per la vita. Mentre la trance non era che inaudita visione di parole mai avute prima. Di cui imbeveva la vita quotidiana, e ne decideva la disseminazione a sé intorno, mai senza cautele né lasciando da parte pietosissima severità.
In Sigillo la lingua diventa confidente del lettore, l’orma femminile della poetessa segna le giornate candide e sporche, per le belle parole e le maledizioni: niente può sottrarsi alla maturità del corpo e del cielo sopra la testa, c’era solo da imparare nei fumi del gasdotto mentre tutto accadeva. In quei fumi scopre un passaggio, una soglia che si credeva invalicabile e tossica. In un istante si ritrova dall’altra parte, di nuovo sana e davanti a stagioni che possono sciogliersi in primavera. Per Giovanna era sempre il miracolo di un breve viaggio cittadino compiuto per un saluto, per una parola non ancora detta. Era la sua capacità di spingersi al movimento, alla conferma. La sua ricerca è un passo che riscalda, perché il suo passo diventa nostro in pienezza di immagini e di volontà. C’è voglia di confluire in una partecipazione, di arrivare a un albergo comune, attraverso le madri, e dunque al poemetto che chiude Sigillo, vertice di quel periodo. Dove l’amore deve farsi largo nel buio della notte, e nei “giorni notturni” con la sorella, negli azzardi etilici cercando e ricercando il corpo materno e combattendo tutti i poteri, del sesso e dei razzismi amorosi.
Avvertire il calore nella bocca per Giovanna Sicari voleva dire avere coscienza dell’inferno, ma anche l’assoluta certezza che fra amore e poesia mai ci potesse essere una tregua consenziente, o una guarigione dall’oltraggio maschile. Ogni verso di Sigillo, e di più nel poemetto Madre, conferma la ferrea decisione di notificare l’esistenza della caduta, della volontà di risollevare il corpo e di salire ancora una volta sui treni “con una valigia rotta e due gambe gettate di schianto”. Nel libro è presente l’intero tratto temporale, dall’infanzia alle corruzioni dirompenti della maturità.
Giancarlo Pontiggia, nella sua perfetta introduzione ricognitiva, evoca l’ombra di Rimbaud che impone uno scudo a un’imperante tradizione oscura e ambigua, proprio come l’opera di Giovanna osa affidarsi alla purezza ancora risiedente in lei dopo essersi esposta ai rigori della strada e alle intemperanze familiari. È l’esigenza che richiede la poesia quando capisce di essere nelle mani di una donna che sa, e che non vuole dimenticare proprio niente, ma rievocare tutto il sangue frutto d’esistenza e di bombe. Sì Pontiggia, libro “ferito e oracolare”, senza alcun dubbio interrogativo sul senso comune e programmaticamente esclamativo nell’azione che la stessa poesia pone con il proprio senso. Fendenti, tagli e lacerazioni, inferti contro la prigionia, così come da qui in poi s’imbeve tutta l’opera di Giovanna Sicari, con pagine anche più accessibili ma coscienti della propria spira: “…Non c’è un momento solo rivelatore come per l’Innominato, per noi ce ne sono troppi e mai si viene a capo!”, scrive in una lettera del 13 settembre 2003. Il 31 dicembre ci lasciava.
Nudo e misero trionfi l’umano è il titolo del poemetto di Giovanna Sicari, pubblicato nel 1998 da Empirìa.
Un grazie speciale a Enzo Eric Toccaceli per il dono della fotografia di G.S., di cui è l’autore.