Philippe Forest, Piena, tr. Gabriella Bosco, Fandango, pp. 253, € 18,50 stampa, € 9,99 e-Book
Se in tempi recenti la scrittura distopica è diventata più che altro mestiere, per una sorta di effetto incrociato tra critica e cronaca, Piena di Philippe Forest si distingue nettamente da questo, nomen omen, diluvio, riportando innanzitutto al centro dell’attenzione le questioni filosofiche che un’epidemia o un’alluvione possono trascinare con loro, e con gli uomini che ne soffrono. O ne soffriranno a breve.
Sono questioni che per Forest riguardano, a un livello che è più esistenziale che non metafisico o storico, il destino dell’uomo e, con una buona dose di nichilismo (di molto superiore, in ogni caso, a quel nichilismo ostentato come posa da molti altri scrittori), alludono al vuoto che può improvvisamente aprirsi nella vita di ciascuno, poiché quel vuoto, della vita, fa inevitabilmente parte.
Alla luce di queste prime note, la puntuale traduzione italiana di Crue – pubblicato nel 2016 da Gallimard e vincitore nello stesso anno del Prix de la Langue Française e del Prix Franz-Hessel – come Piena non si configura soltanto come un’ottima scelta traduttiva per ovviare alla singolare polisemia del lemma francese (che potrebbe essere sostantivo, “innalzamento del livello delle acque”, aggettivo, “cruda”, e participio passato, “creduta”), ma anche come un modo per depotenziare il medesimo jeu de mots, sofisticazione che anche nell’originale risulta compatibile a fatica con la dimensione filosofica, e insieme stilistica, della scrittura di Forest.
Attestandosi infatti sulle tracce di quell’iperrealismo emotivo già ravvisato nell’autore da uno dei suoi più raffinati lettori italiani, Raffaello Palumbo Mosca, Piena non si avvale, se non raramente, di preziosismi linguistici o di riferimenti culturali oscuri: anche quando ci sono, infatti, questi ultimi risultano sempre sovraesposti e, di conseguenza, depotenziati.
D’altronde, è la verità del vuoto, che si apre costantemente nella vita e nella mente del narratore di questo romanzo, che non ha alcun bisogno di fronzoli stilistici, se si considera che l’orizzonte ideale verso il quale tende la narrazione sembra essere, in definitiva, lo stesso di Tutti i bambini tranne uno (1997): evitare il silenzio, e al tempo stesso il suo doppio babelico, come risposta passiva a quel che è irrimediabile e inguaribile.
Resistendo contro il silenzio come ultima sconfitta, Piena offre una narrazione in prima persona che è comunque cruda e crudele e in questa prosa scarna e talvolta triviale (al punto che forse, se fosse impiegata da un esordiente meno consapevole di Forest, sarebbe sottolineata con il lapis rosso da un editor almeno un po’ zelante) si succedono gli eventi minimi e al tempo stesso decisivi della trama. L’amante, il vicino scrittore e il gatto incontrati dal narratore nella sua vita solitaria, in un quartiere periferico di una città europea non meglio identificata, sono i protagonisti davvero memorabili di questa storia, sullo sfondo di un’alluvione e di un’epidemia altrettanto non precisate.
Queste ultime, dopo tutto, sono catastrofi normali, come ricorda a più riprese il narratore, e possono normalmente accadere ovunque: forse sono già accadute – non solo nel romanzo, ma anche nell’esperienza individuale di chi legge. Lettore che sicuramente ha un’arma in più, dopo l’attraversamento della Piena, per pensare e affrontare il vuoto, travestito da caos, che ogni giorno può aprirsi sotto i suoi piedi.