Il 23 febbraio ai Murazzi di Torino un giovane vercellese è stato sgozzato in pieno giorno da un italiano di origini marocchine, altrettanto giovane. Stefano Leo, non un’ombra nella sua breve vita, ha incontrato una morte orribile – coltello affilatissimo, un solo colpo violentissimo a tranciare la gola – mentre si recava al lavoro, vittima di uno di quegli “atti casuali di violenza insensata” che sono stati negli anni ’90 titolo e tematica di un profetico libro di Jack Womack in cui si racconta di una New York, quasi contemporanea, brutale e senza speranza, dove si uccide e si muore con la facilità e la velocità di uno starnuto. In una specularità sconcertante con l’opera di Womack, l’assassino di Stefano ha confessato di avere tolto la vita a Stefano perché sorrideva e sembrava felice. Il delitto perfetto per l’attuale contemporaneità dove il Nulla si trova a essere riempito da qualcosa che assomiglia alla follia ma follia non è, grandioso paradosso che annulla, o quasi, la linea sottile che dovrebbe sempre intercorrere tra fiction e realtà. In tanta contraddizione sguazziamo non so con quanta consapevolezza – a parer mio molto poca – e purtroppo la cronaca, sempre più pesante, sembra darci ragione.
Se non entro nel merito, per evitarvi un apparente moralismo gratuito, va da sé che servirsi della realtà come chiave di accesso a un’opera di fantasia, Il branco uccide. Caccia al Drago Giallo di Marina Crescenti, un po’ dovrebbe dirla lunga sui tempi strani e pure grami che stiamo vivendo. Il fatto è che la celestiale Marina Crescenti, come Jack Womack di cui sopra, ci vede lontano. E non solo come Womack, ma soprattutto come il mai troppo compianto Sergio Altieri, produttore di una narrativa che non solo vedeva altrettanto lontano, ma vedeva “oltre”. I frutti di Sergio germogliano e germoglieranno ancora, e questo libro e la sua autrice rientrano nel novero. Se Marina Crescenti me lo concede, vorrei riportare qui la dedica, appassionata e commovente, che leggiamo prima dell’inizio.
“Questo mio libro ha un padre. Nasce da un’idea di un grande Uomo – immenso Autore e molto di più – che ne aveva immaginata e progettata la pubblicazione in una delle più note collane da lui dirette. È a te, Sergio, che lo dedico con tutto il mio cuore, perché ti piaceva, perché mi chiamavi “Rising”, perché è grazie a te che l’ho scritto. (Sergio Altieri, 1952 – 2017).”
Precisiamo. Questo non è un testo per anime candide. Bensì un libro, ancora citando una leggendaria antologia curata da Altieri, per “Anime nere”, spiriti vaganti nelle dimensioni oscure che non si arrenderanno mai al conformismo narrativo ed estetico, tendente oggi a voler dominare anche nei generi popolari.
Il branco uccide. Caccia al Drago Giallo è un libro sconvolgente, travolgente quanto crudelissimo, e come il precedente Le lacrime del Branco, la prima discesa agli Inferi della banda di balordissimi, capitanati da Oscar, avvocato di giorno e criminale nelle tenebre, richiama alla mente l’oscuro e incubico concetto dell’Amok e non arretra di fronte alla rappresentazione a tutto campo del Male contemporaneo.
Per rinfrescare le memorie, l’Amok è un particolare e patologico disturbo comportamentale provocato da uno stato “crepuscolare”, riscontrato e analizzato per la prima volta tra gli indigeni della Malesia e caratterizzato da uno stato depressivo cui segue una crisi di furore omicida, durante la quale il soggetto corre urlando e colpisce alla cieca chiunque incontri. Quando la crisi è passata, il soggetto non ricorda più nulla. Il termine può riferirsi oltre che alla follia in sé anche all’individuo che ne è affetto. Dovrebbe in pratica colpire solo individui provenienti dal Sud Est asiatico, ma culturalmente lo si può estendere, appunto, a definire certe patologie aberranti più che mai d’attualità, vedi il povero cristo sgozzato ai Murazzi perché “sorrideva”, e pure lo stragismo dilagante sul pianeta, dove si spara nel mucchio, per quanto grande o piccolo sia il mucchio.
L’Amok richiama anche le tesi del fisico russo-belga Ylia Prigogine laddove, nel suo trattato sulle strutture dissipative (La fine delle certezze – Il tempo, il caos e le leggi della natura, Bollati – Boringhieri, 1997, Torino) scriveva che idee e pensieri non risiedono nelle strutture cerebrali fisiche bensì in una regione energetica e vibrazionale dove siamo tutti
sintonizzati e dove le informazioni riescono ad assommarsi raggiungendo un quorum, una soglia oltre la quale apprendimenti e intenzioni sono istantaneamente connessi.
Non so dire se negli ultimi anni le stragi di massa siano veramente aumentate, come suggerirebbe la cronaca nel suo insieme, o è solo aumentata la percezione numerica delle medesime. Il rischio di chiamare in causa argomenti nobili per trovare una ragione all’inspiegabile è quello di voler trovare a tutti i costi una scusante biologica all’esercizio del Male e, saltando dalla cronaca alla pagina, dobbiamo constatare che nel secondo libro sul Branco, il Male insensato ed esibito a tutta pagina non trova più alcuna attenuante. I membri del Branco sono corpi senza coscienza. Bastardi che non meriterebbero alcuna pietà da parte nostra, i lettori. Che siamo pure voyeur. Eppure indugiamo perché la morte in diretta e tutto questo sangue che scorre a mo’ di cascata di Shining possiedono un fascino avviluppante.
A schematizzarla, la linea narrativa del libro sembrerebbe richiamare il più classico stile della guerra fra gang, ma già dalla seconda pagina Marina Crescenti ci fa capire senza mezze misure che siamo “Altrove”. La metropoli è l’inferno in Terra e nelle sue viscere si muovono demoni in forma di uomini che non arretrano di fronte a nulla, spingendo l’acceleratore della crudeltà oltre ogni limite pensabile. Devo confessare che uno dei passaggi più impressionanti – ne riferisco a titolo personale – è quando il Branco “rade al suolo” la Città Violenta, per capirci ammazzano senza porsi il minimo scrupolo i membri di un gruppo musicale “prog” che si sono dati un nome a dir poco predestinato. Al di là delle motivazioni che si scoprono leggendo il libro, “vedere” che qualcuno ti può tirare giù dal palco e mandarti all’altro mondo o inseguirti nel cuore della notte a fine concerto, non è affatto una bella sensazione. A me, “musico ambulante” per dirla con Concato, fa un pessimo effetto perché la gente del Branco abbatte persino l’ultima barriera, che non è solo formale, tra Palco e Realtà.
Peraltro, come scrive Marina Crescenti, su quel palco «qualcuno lanciò un boccale che si frantumò. Il chitarrista agganciò col piede il frammento più grosso e se lo portò alla mano, mentre con l’altra seguitò a far andare il plettro. Si tagliò i jeans all’altezza della coscia, il sangue si sparpagliò sulla stoffa, la gente ululava…». A dire che c’è sempre un momento teatrale che racchiude l’essenza dell’opera stessa, il caos insensato che si trasforma in anagramma del mondo.
Oh, permane sempre un grande mistero, almeno per me, dietro le opere di Marina Crescenti. Lei è bellezza e dolcezza allo stato puro e io mi ritrovo qui a chiedermi di che materia è composto il suo mondo artistico. In realtà, mentre lo faccio, sono colpevolmente dimentico che i grandi scrittori – e scrittrici -, quando producono con le viscere dell’inconscio in dinamica tensione, si agganciano alle zone infere e ne tirano fuori il succo, trasfigurandolo in opera d’arte.
L’invisibile Amok che ti percuote dentro e ti invita a guardare meglio, sussurrandoti: È solo un libro, è solo un libro…