“Ho parlato con disperata energia del diritto
che la rivoluzione ha sulle nostre vite.
Allora non disprezzavo ancora, come adesso, le parole”.
Victor ŠKlovskij, La rivoluzione e il fronte
Ho da tempo maturato la convinzione che i libri siano, nella grande maggioranza dei casi, più interessanti di chi li ha scritti. Mi ostino a frequentare presentazioni librarie, che mi confermano la grande disparità tra l’umanità dell’autore e il carattere del libro, come se gli scrittori infondessero la parte migliore di sé nella letteratura, permettendosi poi una vita ordinaria. Beninteso, non che questo sia negativo: se è la fiction la vera vita di uno scrittore, e la sua biografia un dato trascurabile, allora vive la différence!
Questo effetto è ancora più evidente per gli autori del passato, dei secoli in cui la letteratura non era un’industria culturale ma una delle occupazioni delle classi alte, degli intellettuali e dei chierici. Prendiamo un esempio invece più vicino a noi. Prendiamo Viktor Šklovskij, il critico russo che è tra i padri del formalismo, la cui Teoria della prosa (1925) è un testo fondamentale nella teoria della letteratura, soprattutto per il concetto di straniamento. Se cerchiamo una sua foto nella rete, lo scopriamo calvo e elegante, con vestito nero e papillon, e siamo autorizzati a immaginarlo in cattedra, in aule polverose, mentre brufolosi studenti universitari sostengono un esame cercando di ignorare la sua espressione disgustata per le castronerie che è costretto a ascoltare.
Se è così che lo immaginate, studenti di semantica e di scrittura creativa, provate a leggere Viaggio sentimentale, autobiografia degli anni 1917-1922, quando Šklovskij era commissario politico al fronte, terrorista antibolscevico, esule in Finlandia ricercato dalla Čeka — e nel frattempo scriveva il saggio intitolato “Il legame tra i procedimenti di composizione dell’intreccio e i procedimenti generali dello stile”, collaborava a riviste letterarie su raccomandazione di Maksim Gor’kij e teneva lezioni in pubblico su Lev Tolstoj e Laurence Sterne in una Pietrogrado strangolata dalla guerra civile.
Proprio a Sterne si ispira il titolo di questo libro, al suo Viaggio sentimentale di Yorick tra la Francia e l’Italia del 1768, tradotto in italiano da Ugo Foscolo (Garzanti, 2018).
“Non rimpiango, certo, di aver baciato, mangiato, visto il sole; mi rincresce di essermi avvicinato alle cose per cercare di dar loro un indirizzo, mentre tutto andava invece secondo un itinerario prestabilito. Mi rincresce di aver combattuto in Galizia e sul Dnepr, di essermi occupato dei mezzi blindati a Pietroburgo. Non sono riuscito a cambiare niente. E ora me ne sto seduto alla finestra, guardando la primavera che mi passa accanto senza chiedere a me che tempo dovrà allestire domani, la primavera che non ha bisogno della mia autorizzazione, forse perché sono forestiero, e penso che allo stesso modo avrei dovuto lasciarmi scivolare accanto la rivoluzione.» (V. B .Šklovskij, “La scrivania”, parte seconda di Viaggio sentimentale).
Le memorie iniziano subito dopo la Rivoluzione di febbraio, quando lo zar abdica e il potere si frammenta tra i soviet, che non sono ancora espressione della sola frazione bolscevica, e il governo provvisorio. Il ventiquattrenne Viktor Borisovič Šklovskij è istruttore in un’unità corazzata della riserva, a Pietrogrado; non ha i gradi da ufficiale perché nell’esercito zarista chi ha anche solo metà sangue ebreo ne è escluso.
La rivoluzione penetra anche nell’esercito, i reparti cominciano a sbandarsi, i comandanti vengono eletti, si formano comitati in ogni unità. Šklovskij accetta l’incarico di commissario al fronte, e arriva nella Galizia austro-ungarica insieme a alcuni colleghi, con l’incarico di motivare un’intera armata e ottenere il proseguimento dell’offensiva sul fronte austriaco. I soldati sono sfiduciati, stanchi di guerra, esausti. Ritengono che la rivoluzione debba porre fine al conflitto mondiale. All’apparenza, lo scopo del governo provvisorio russo è invece quello di provocare il collasso militare degli Imperi Centrali così che la rivoluzione si estenda al resto d’Europa. Con molta pazienza, i commissari riescono a ottenere un’offensiva sulle montagne, ma il contrattacco austro-tedesco provoca la rovina del fronte. Šklovskij ottiene di essere trasferito in Persia, dove l’esercito zarista ha aperto un altro fronte contro l’Impero ottomano, alleato degli austro-tedeschi. Si tratta adesso di riportare in patria alcune centinaia di migliaia di soldati che non vogliono più combattere, ma la presenza russa ha scatenato una contro l’altra diverse fazioni: i cristiani nestoriani, che Šklovskij chiama “assiri”, i curdi sunniti, i persiani sciiti, gli armeni. La difficile ritirata si svolge a fatica, più simile a una rotta, tra stragi insensate, rivalità millenarie, tutti contro tutti.
Quando Šklovskij raggiunge di nuovo la capitale, la rivoluzione d’ottobre ha già portato i bolscevichi al potere: “Un uomo è addormentato e sente suonare il campanello del padrone. Sa che deve alzarsi, ma non ne ha voglia. E allora si inventa un sogno e ci mette dentro questo campanello, fornendogli un’altra motivazione — che sta sognando le campane del mattutino, per esempio. La Russia si è inventata i bolscevichi come un sogno, come una giustificazione all’abbandono del campo di battaglia e alle ruberie; i bolscevichi non hanno colpa di essere stati sognati”.
Il territorio russo è in parte occupato dai tedeschi, dopo il disfacimento dell’esercito, e le forze contrarie alla rivoluzione si organizzano. Da una parte i Rossi, comunisti e i social-rivoluzionari; dall’altra i Bianchi, cioè menscevichi e partigiani del regime zarista. Šklovskij apparterrebbe al campo dei primi, ma rimane coinvolto nell’organizzazione terrorista di Grigorij Semënov, che progetta un’insurrezione anticomunista, e si incarica di organizzare un reparto di veicoli blindati. Nel frattempo lavora ai suoi testi di narratologia. Nel tentativo di ricongiungersi alla moglie, rimasta isolata a Cherson sul Mar Nero dall’avanzata dei Bianchi, accetta una missione in Ucraina. Anche qui viene coinvolto nella guerra civile; non è nell’Armata Rossa, ma si batte contro i Bianchi, e intanto consulta i suoi libri e scrive. Un giorno gli esplode tra le mani un ordigno che sta innescando, e mentre ricade in terra ferito e ustionato pensa fugacemente a chi terminerà il suo saggio “L’intreccio come fenomeno di stile”. Viene evacuato su un treno di fortuna prima della caduta della città. Tornato a Pietrogrado, si installa nella Casa delle Arti, dove vivono, o sopravvivono nelle terribili condizioni del comunismo di guerra e della Nep, artisti come Aleksandr Aleksandrovič Blok, Emil’evic Mejerchol’d, Vsevolod Vjačeslavovič Ivanov , con il quale anni dopo scriverà il romanzo Iprite.
Una sera tornando a casa nota dall’esterno la luce accesa nella propria stanza; si dà alla macchia, ha capito cha la Čeka è lì per arrestarlo. È successo che il suo amico Grigorij Semënov (che tra l’altro è il proprietario della pistola con cui quattro anni prima Fanja Kaplan aveva sparato a Lenin) si era venduto ai bolscevichi, e da Berlino, dove si trovava in esilio, aveva dato alle stampe una pubblicazione in cui faceva nomi e cognomi di tutti i suoi collaboratori, incluso ovviamente Šklovskij, indicato come organizzatore di una formazione meccanizzata nella capitale.
Fugge a piedi attraverso il lago ghiacciato, si rifugia in Finlandia, che dopo la rivoluzione è diventata indipendente dall’Impero: più o meno la stessa strada seguita da Lenin tra il febbraio e l’ottobre del 1917. E qui comincia a scrivere le proprie memorie, e continua ancora a Berlino, dove infine a un testo di qualche anno prima, “La rivoluzione e il fronte”, aggiunge una seconda parte, “La scrivania”, ottenendo così una ricostruzione del periodo 1917-1922. Pubblica il tutto come Viaggio sentimentale.
Questa di Adelphi, con una nota introduttiva di Serena Vitale, non è la prima edizione italiana: in passato il libro è stato pubblicato da De Donato, Se, Einaudi. Lo stile di Šklovskij può sollevare qualche dubbio: è spezzettato, nervoso, asseconda il ritmo del ricordo più che quello dello stile, costruito per sembrare consegnato alle stampe senza revisione: ma è lo stesso linguaggio usato nelle altre opere, non solo Iprite, la fiction fantascientifica, ma anche i testi di critica, di teoria della prosa, quelli che ancora oggi chi si occupa di letteratura dovrebbe conoscere.
Viaggio sentimentale è tutt’altro che sentimentale: è infarcito di ricordi di stragi, mattanze, ingiustizie, pulizia etnica, sanguinose repressioni, vendette, soprattutto nei capitoli ambientati in oriente, che, come scrive esplicitamente lo stesso Šklovskij, l’Oriente comincia a Pskov, cioè alla frontiera russa con l’Europa, e prosegue fino agli oceani, al Giappone, all’Indonesia.