Non sono qui per raccontarvi un festival

Bisogna raccontarsi e non farsi raccontare, bisogna costruire un'altra storia fatta non solo di rabbia e di antidoto alla rassegnazione, ma di ironia, ingegno, fantasia, immaginazione. Bisogna contaminare e farsi contaminare dalla letteratura, alzare il cacciavite calamaio, riappropriarsi di simboli e pratiche storiche, creare nuove alleanze per percorrere strade non battute. Simona Baldanzi racconta il Festival Working Class.

Non siamo qui per intrattenervi è stato il titolo del Festival Working Class avvenuto dal 5 al 7 aprile di fronte al presidio permanente della fabbrica ex GKN di Campi Bisenzio in provincia di Firenze, organizzato dal Collettivo di Fabbrica GKN, la Soms (l’associazione culturale tirata su dalla convergenza culturale di Operaie e operai e solidali), la casa editrice Alegre, l’Arci e con la direzione artistica di Alberto Prunetti e il patrocinio del Comune. Non siamo qui per intrattenervi sono parole in prestito da Mark Fischer che ha più volte individuato nel cosiddetto realismo capitalista il responsabile della rassegnazione, frutto di un bombardamento di racconti che non fanno vedere alternative. Un festival letterario che non vuole intrattenere, che vuole ribaltare quei racconti, che vuole creare un altro immaginario. Come fare a raccontare qualcosa che non è solo racconto ma pratica? Forse partendo da qualche numero.

Dall’annuncio di 422 licenziamenti del luglio 2021, ad aprile 2024 sono rimasti circa 150 maestranze e sono trascorsi mille giorni di assemblea permanente a cui sommarne tre di Festival Working Class alla seconda edizione, una ventina di incontri ed iniziative di avvicinamento al festival,  quattrocento persone che hanno finanziato il tutto tramite crowdfunding, duecento volontari, cinquanta relatrici e relatori provenienti da sette paesi, cinquemila presenze, quattro spettacoli teatrali, centinaia di pasti distribuiti, uno spazio per Pischel rebel (0-18 anni), una Banda di Ottoni a suonare, Radio Sherwood a registrare, un camion come palco e seicento sedie noleggiate, un festival che diventa corteo lungo le strade alluvionate di Campi Bisenzio.

Il racconto è un attrezzo del mestiere, ma di solito non sta nelle mani e nella voce di operaie e operai. Il racconto è uno strumento di lotta e di difesa, ma spesso lo maneggia meglio chi sfrutta e chi domina rispetto a chi è sfruttato e dominato. Il racconto è stato fondamentale e innovativo fin dal primo istante di questa lunga e logorante vicenda sindacale, perché ad una fabbrica che chiude, operaie e operai hanno sentito l’esigenza di convergere culturalmente col territorio e coi solidali intorno al motto insorgiamo. È proprio il racconto di se stessi che è insorto: bisogna raccontarsi e non farsi raccontare, bisogna costruire un’altra storia fatta non solo di rabbia e di antidoto alla rassegnazione, ma di ironia, ingegno, fantasia, immaginazione. Insomma bisogna contaminare e farsi contaminare dalla letteratura, alzare il cacciavite calamaio come nel disegno logo del festival a cura di Antonio Pronostico, riappropriarsi di simboli e pratiche storiche insieme a creare nuove alleanze per percorrere strade non battute.

Non è facile raccontare un festival di questo tipo perché è qualcosa che è accaduto contro tutti i pronostici, perché è qualcosa che non ha un inizio definito (a parte la sirena che implacabile annunciava ogni sessione facendo sobbalzare tutti!) e che non vuole avere una fine. Costruirlo e rafforzarlo in un contesto di attacco quotidiano non è stato semplice. Il liquidatore dell’azienda pochi giorni prima aveva mandato delle guardie presso il presidio, aveva mosso accuse pesanti sulla legittimità di un evento culturale per altro difeso dallo statuto dei lavoratori e dalla storia dei dopolavoro culturali, ha inviato droni spia che ronzavano nel cielo azzurrissimo per tutta la durata del festival. Inoltre ignoti a soli due giorni dal Festival hanno distrutto la cabina elettrica lasciando l’intera fabbrica al buio. Come si fa a raccontare mentre tutto sembra crollare? Cercando di fare luce laddove ci vogliono al buio, grazie ad esempio ai generatori e soprattutto alla solidarietà di un gruppo di attivisti tedeschi che hanno viaggiato per migliaia di chilometri per portare i pannelli solari, assemblati dagli operai ex GKN e che dopo un annuncio da spy story sul finale del festival ha riportato la luce al Bar del presidio!

Come si fa a raccontare mentre le storie succedono e non stanno ferme e buone a farsi raccontare? Ci provi, cercando di fare il pieno nel piazzale davanti al camion palco laddove altri creano il vuoto: i migliaia di metri cubi di una fabbrica spenta contrastavano pesantemente con la presenza di vitalità umane di ogni età e provenienza. Cercando di parlare di poesia, di letteratura, di saggistica, di fumetti, di immaginario working class mentre la storia la si fa insieme.

Quando stavo per salire sul palco per moderare uno degli innumerevoli incontri ho visto un taccuino a sfondo verde in mano ad una ragazza “Cercasi visionari”. Mi ha sorriso. E chiunque là ha trovato qualcuno con cui sorridere e scambiarsi un libro, un’idea, la solita domanda rilanciata dal collettivo, e tu come stai?

Come si fa a tenere insieme tutto quello che non va e dare spazio a ciò che vorresti andasse? Incredibilmente ascoltandosi, prendendo appunti, partecipando, ponendo domande. E se tutto pare crollare e non stiamo neanche bene come mai siamo così tante e così tanti affamati di altro tipo di storie? Come mai riusciamo a tenere insieme tutto qua, con gli occhi inumiditi di orgoglio e soddisfazione più che di disfatta e sgomento? Così succede che teniamo insieme la poesia operaia italiana degli anni ’70 insieme a quella moderna degli operai cinesi, stanno insieme le ferite di amianto e polveri nocive a quelle del logoramento della precarietà e dello sfruttamento anche nella filiera editoriale, succede che i neon illuminano la notte e si parla di oppresse e di linguaggio con una polifonia di voci dalla Spagna, dal Cile, dall’Italia; si parla di traduzioni e di interpreti di classi sociali e dei lavori, di fumetti e illustrazioni che pescano dalla memoria di donne, cani e fonderie, camicie e immigrazione e dalla cronache di operai che non vogliono diventare zombie o medaglie da esibire, di storie working class dalla Svezia, dalla Francia, dall’Inghilterra, dall’Italia. Succede che i dibattiti diventano corteo e il corteo diventa sit in attesa della pasta al sugo di pecora e la lotta diventa ricreativo e il ricreativo diventa culturale e dalle finestre del circolo Rinascita di Campi leggono le operaie e gli operai GKN e cantano e attualizzano volantini, poesie e storie che sono anche la loro.

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Dalla fabbrica dei sogni paiono liberarsi tanti soffioni ed ognuno è un rimando ad un testo, ad una parola, ad una storia. Difficile raccontarlo, a chi c’è stato basta guardarsi e stringersi gli occhi. Non siamo qua per raccontarvi un festival, vi dico solo che non saprei neanche tratteggiare cosa ho provato. Va ripreso tutto il programma e cercato ogni libro e tornare a leggerle e scovarne altri e dargli spazio e poi riparlarne insieme. Creare un’economia circolare di racconto dove rimettiamo in moto energia pulita di cervelli e compagnitudine contro il logorio della vita moderna. Per non smettere di lottare e di immaginare.