Il 5 agosto del 1945 è domenica. La famiglia Watanabe abita a Nagasaki e il padre decide di partire con il figlio – il protagonista del romanzo – per Hiroshima, dove il giorno dopo deve svolgere un lavoro. Il bambino è felice. La moglie lo supplica di non farlo, si inginocchia per convincerlo. Hiroshima ha una base navale ed è punto di riunione delle truppe imperiali. Ma il marito è irremovibile: “Non possiamo smettere di vivere perché c’è la guerra”.
Il 6 agosto ad Hiroshima, alle 8.15, padre e figlio sono in strada. Nei due giorni successivi, nell’inferno e nel caos che lo circonda, il bambino tenta di prendere un treno per tornare a casa, ma lo perde. Dopo poche ore anche Nagasaki viene rasa al suolo. Nell’orrore della realtà, Il bambino Yoshie Watanabe è sopravvissuto, unico della famiglia. Verrà adottato dai nonni di Tokyo, e non farà mai più ritorno nei luoghi dove è avvenuta la Frattura. Vivrà molte vite a Parigi, New York, Buenos Aires, Madrid, come importante rappresentante di una azienda giapponese, e sarà sempre in viaggio.
In ognuno di questi mondi vivrà un grande amore, e saranno le sue donne – Violet la studentessa di storia, Lorrie la giornalista, Mariela la traduttrice, Carmen la fisioterapista– a raccontarlo. Quattro età diverse, quattro lingue, quattro epoche di maturità della coppia.
Ritiratosi in pensione, il signor Watanabe, da solo, tornerà a Tokyo, giusto in tempo per rivivere lo strazio di Fukushima. Per troppi decenni ha lasciato al buio, muto, il gorgo che lo scava da sempre: tornare.
Ma c’è la voragine del tempo. Non riconoscerebbe la sua città, non troverebbe nulla. In qualche modo, Fukushima rinnova la sua tragedia. Accade oggi, all’ora del suo presente, e l’orologio della sua vita paralizzata torna a muoversi.
“Un sopravvissuto perde spazio in comune con i suoi simili, ha attraversato un territorio senza la tribù. Per questo così tante vittime sviluppano una misantropia che continua a nuocere anche a distanza di molto tempo. Lui lo sa bene: ha passato tutta la vita a cominciare un’altra vita, a cambiare luogo per non essere raggiunto da certi sentimenti”.
Compra un rilevatore di radioattività che non consulta, e cammina per paesi disabitati, in un mondo bello e morto. Arriva a una pensione, non c’è nessuno.
“- Mi scusi se ho tardato ad aprirle, – dice il signor Satō. Ero sul retro, stavo riparando una ceramica. Le piace il kintsugi?
– Sempre di più, – risponde Watanabe.
– E lo pratica?
– Diciamo di sì.
– Io lo praticavo da giovane. Poi, con la famiglia, l’ho messo da parte. Finché mi sono detto: perché no? Uso soltanto pezzi da poco, ovviamente. Non posso permettermi altro. L’importante è riparare. Ha un minuto?”
Un romanzo magistrale, prodigo di riflessioni sulla continuità, la morte, il dolore, la separazione, la prossimità, l’amore, la rinascita. Riservato e appassionato, prudente e affamato di integrazione pur mantenendo i suoi riti più antichi, il signor Watanabe apprende le lingue dei paesi che lo ospitano, come un punto d’onore, come un ringraziamento per la nuova vita.
Neuman conosce magnificamente il mondo giapponese, costellato di sconvolgenti e nobili contraddizioni, e la figura del signor Watanabe non possiamo lasciarla mai più, anche se deponiamo il libro sullo scaffale. Molto oltre rispetto a un saggio sul nucleare o la follia della guerra, Frattura racconta come si sopravvive al reiterato tentativo di suicidio del pianeta. Sembra suggerirci che riparare non sia una necessità, ma un’opera d’arte. Come diceva la madre del signor Watanabe, “Se una persona non sa trovare un uso per qualcosa, è la persona che è inutile”.