“Non c’è un monumento a Babij Jar”

Anatolij Kuznecov, Babij Jar, tr. Emanuela Guercetti, Adelphi, euro 22,00 stampa, euro 10,99 epub

Un giorno del 1961, Evgenij Evtušenko, già affermato poeta, accompagna a Kiev il coetaneo Anatolij Kuznecov, suo compagno di studi all’Istituto di Letteratura. Evtušenko è uno degli nuovi autori usciti allo scoperto grazie al disgelo degli anni di Chruščëv: su di lui, come su altri scrittori, si focalizzano le speranze di un allentamento della censura e la fine dello ždanovismo. Kuznecov porta l’amico nella località di Babij Jar, alla periferia nordovest della capitale ucraina, e gli racconta ciò che ha visto con i suoi occhi di bambino venti anni prima: il massacro di decine di migliaia di ebrei poco dopo la conquista della città da parte della Wehrmacht, a fine settembre 1941. Vecchi, donne e bambini, più di metà della popolazione israelita di Kiev, furono condotti al grande fossato naturale, fucilati in massa dall’SD e dai collaborazionisti ucraini, e i corpi bruciati. Evtušenko scrisse su Babij Jar una delle sue poesie più famose:

Non c’è un monumento
A Babij Jar
Il burrone ripido
È come una lapide
Ho paura
Oggi mi sento vecchio come
Il popolo ebreo
Ora mi sento ebreo

La ragione per cui un monumento fu eretto a Babij Jar solo nel 1976 risiede nell’ondata di antisemitismo di matrice staliniana che ha stravolto l’URSS dopo la guerra e fino agli anni di Nikita Chruščëv. Anche la poesia, la cui pubblicazione era stata comunque autorizzata, fu criticata perché parlava solo degli ebrei trucidati, e non dei comunisti fucilati e gettati nella stessa fossa negli anni successivi, prima che l’Armata rossa liberasse la città. A nulla servì il fatto che Dmitrij Šostakovič, il maggior compositore sovietico, incorporasse il testo di Evtušenko nel primo movimento della sua Tredicesima sinfonia, alla quale dette proprio il titolo Babij Jar, e che racconta la passione del popolo ebraico, a partire dalla fuga dall’Egitto fino alle agghiaccianti fosse comuni di Kiev.

Pensando fosse venuto li momento giusto per prendere posizione e raccontare com’erano andate le cose, a metà anni Sessanta Anatolij Kuznecov scrisse il suo libro di memorie, un roman-dokument, e lo consegnò alla rivista Junost’. Per sua sfortuna in quel periodo il segretario generale Chruščëv era stato deposto da una congiura di partito e sostituito dal grigio Leonid Brežnev. Rapidamente in URSS torna a diffondersi un nuovo clima antisemita. Il manoscritto fu restituito, giudicato impubblicabile perché conteneva “propaganda antisovietica”. Kuznecov aveva raccontato senza remore cosa pensava del potere bolscevico una larga parte della popolazione ucraina, e nell’ultimo capitolo anche come erano stati trattati gli abitanti di Kiev dopo la liberazione. In quanto persone vissute sotto l’occupazione tedesca, erano caduti in uno stato di sospetto, come se tutti avessero collaborato con i nazisti. La memoria dello spaventoso eccidio di Babij Jar fu cancellata, il burrone dove gli ebrei (e poi decine e decine di migliaia di comunisti, o sospetti tali), venne l’invaso di una diga, per essere poi colmato di terra negli anni Sessanta.

Dopo diversi rimaneggiamenti e continui tagli, tipici dell’editoria sovietica asservita alle esigenze della politica, il romanzo uscì amputato di un quarto del testo, e senza l’assenso dell’autore alla versione definitiva. Babij Jar  fu immediatamente ripreso da case editrici occidentali, che però richiedevano ai sovietici la versione integrale. L’edizione disponibile era infatti stampata, su richiesta di Kuznecov, con la premessa “Pubblichiamo il romanzo in versione ridotta”. Tre capitoli reintegrati furono spediti all’estero in fretta e furia, e su questa versione viene effettuata la traduzione italiana di Paravia del 1970. Nel frattempo l’autore, dopo un periodo di collaborazione con il KGB, perde ogni speranza di rinnovamento a causa dell’invasione  della Cecoslovacchia e della fine della Primavera di Praga, il cosiddetto “comunismo dal volto umano”. Nel 1969 Kuznecov è a Londra con un visto di due settimane, probabilmente per conto del KGB; ne approfitta per lasciare l’albergo dove ha preso alloggio e chiedere asilo politico. Ha con sé una serie di pellicole fotografiche su cui ha riprodotto l’edizione integrale di Babij Jar. La prima versione approvata dall’autore appare quindi nel 1970, con l’evidenziazione dei tagli ripristinati. È questa la versione che Emanuela Guercetti ha tradotto per Adelphi (nel 2010 l’editore Zambon aveva ripreso il testo ridotto di Paravia), con tanto di parti di testo evidenziate con un lieve segno grafico che non impaccia la lettura.

Il libro si apre con un’affermazione che ogni tanto l’autore ricorda ai lettori: “Tutto in questo libro è verità”. Contiene i ricordi adolescenziali di Kuznecov, sorretti da appunti presi all’epoca dei fatti e integrati da testimonianze, debitamente segnalate, di sopravvissuti all’eccidio e all’occupazione. È un libro che mette i brividi e procura forti nausee, basti pensare che racconta l’occupazione in una singola città dell’Unione sovietica: un terzo della popolazione di Kiev, secondo Kuznecov. Moltiplichiamo per tutte le regioni occupate (Repubbliche baltiche, Bielorussia, Ucraina, Russia occidentale, Caucaso) e si arriva a intuire che Hitler arrivò vicino a realizzare quanto preconizzato nel Mein Kampf: lo sterminio della popolazione slava e la sua sostituzione con coloni tedeschi.

Anatolij Kuznecov non fu il primo a denunciare l’agghiacciante carneficina di Babij Jar: poco dopo la resa della Germania, Albert Einstein auspicò la stesura di un “Libro nero” per raccontare il genocidio nazista, e la sua proposta fu raccolta dal Comitato antifascista ebraico dell’URSS. Il capitolo su Babij Jar è infatti il primo del mastodontico “Libro nero” compilato a cura di Vasilij Grossman e Il’ja Ehrenburg e mai dato alle stampe, perché nel frattempo Stalin era tornato a praticare una politica antisemita. L’edizione italiana è apparsa nel 1999 da Mondadori, ed è il prototipo di tutti i “libri neri” scritti da allora in poi.

“Quando dalla Germania giunsero le prime notizie sui campi di sterminio hitleriani, il mondo non ci credette. Era più incline a fidarsi delle belle parole dei farabutti. Molti di quelli che volarono come fumo dai camini delle varie Buchenwald avevano cominciato fidandosi. […] Se la civiltà oggi è in pericolo, se è destinata a degenerare o a morire, questo accadrà con l’aiuto entusiasta dei creduli. Oggi essi mi sembrano più pericolosi dei leader più sfrontati, perché tutto avviene per mano loro. E diventano tristemente numerosi, e intravedo già nuovi Babij Jar, Auschwitz e Hiroshima universali, quali non ci siamo mai neppure sognati”. (Anatolij Kuznecov, “Qualche parola dall’autore”).