Sono iscritto a alcuni gruppi Facebook dove ci si scambia consigli e opinioni sui libri. I social sono pieni di comunità di questo genere, più o meno vaste; alcuni gruppi sono dedicati solo a un genere letterario (fantascienza, giallo, romance, ecc.), altri a un singolo autore o autrice, altri addirittura a un libro specifico. Confesso di non essere molto attivo in queste bacheche, però qualche volta mi lascio andare a un apprezzamento o a un breve commento, quando ci si riferisce a un libro che ho letto.
Sono soprattutto due gli aspetti che mi colpiscono in questi interventi — oltre naturalmente al fatto che tanti lettori sentono la necessità di condividere la passione per la lettura. Il primo aspetto è che ci sia chi domanda suggerimenti sulle prossime letture da intraprendere, o su un libro da regalare, come se il gusto fosse un assoluto. Naturalmente, non esiste un libro considerato bellissimo, perfetto, imprescindibile da TUTTI i lettori, come non ne esiste un altro vituperato, negletto e dimenticato da TUTTI — per cui, che senso ha? Se il gradimento letterario fosse universale, si stamperebbero ben pochi libri, e oltretutto vivremmo in un mondo veramente orribile.
Il secondo aspetto è la qualifica di “noioso” che viene applicata a un determinato libro, quasi sempre un romanzo. Questa noia di solito viene formulata come giudizio a sé, oppure coniugata con l’accusa di Lentezza. Noia e Lentezza sembrano per molti, anche per lettori forti, le accuse definitive per condannare un romanzo. Ho provato a domandarmi per quale ragione un testo possa essere giudicato negativamente per la sua lentezza. Prima di tutto, ho cercato di chiarirmi cosa si intende con Lentezza; sono giunto alla conclusione che sia un misto di scelte stilistiche, lunghezza delle descrizioni, ritmo del racconto e frequenza di colpi di scena. Sono abbastanza convinto che in quasi tutti i casi, io giudicherei la stessa opera all’estremo opposto della medesima scala di valore.
Sono dell’avviso che, al pari di ogni attività che richiede un apprezzamento estetico, come tutta l’arte, anche la letteratura debba essere parametrata su una scala tra due opposizioni: diciamo, molto schematicamente, bello/brutto. Questa opposizione, a seconda del testo da “giudicare”, può assumere definizioni differenti, ai limiti del fatto estetico: per esempio interessante/inutile, illuminante/mistificatorio, oppure giudizi sul contenuto: realistico/fantastico, emotivo/intellettuale, commovente/freddo, e chi più ne ha più ne metta. Se c’è invece una contrapposizione che proprio non riesco a concepire è quella azione/lentezza, e ancora di meno divertimento/noia, come se la lettura fosse una gara sportiva, oppure una barzelletta.
La prima spiegazione che mi sono dato, naturalmente è che la causa (o la colpa?) principale di questa opinione sia del ritmo sempre più incalzante che caratterizza certa fiction cinematografica e televisiva, imposto da Hollywood a partire da blockbuster di effetti speciali – dapprima nel genere fantascienza, poi per quasi tutte le produzioni delle Majors, grazie all’evoluzione dell’immagine elettronica.
L’acquisto sempre più massiccio di fiction americana da parte dei broadcast e dei circuiti di distribuzione europei ha prepotentemente influenzato il gusto del pubblico. È l’equivalente di una iniezione di adrenalina, che in un certo tipo di lettori svaluta immediatamente le opere che ricorrono a scene d’azione soltanto quando è necessario, con moderazione.
Parafrasando un passaggio del “Manuale di scrittura di fantascienza” che ho scritto insieme a Giulia Abbate, vorrei affermare che “imparare a leggere per cercare soltanto le sensazioni forti delle avventure d’azione è paragonabile allo sforzo di imparare una lingua straniera, e poi usarla solo per raccontare barzellette.” Non stupisce quindi che questa etichetta di Lentezza si estenda retroattivamente anche alla letteratura classica, che per ragioni cronologiche dovrebbe essere esente dalla possibilità di un simile giudizio. Nelle bacheche social, molti chiedono l’opinione di altri sulla “pesantezza” della lettura di un classico, probabilmente perché si rendono conto che la scrittura contemporanea è diversa da quella dell’ottocento; ciò comporta già un giudizio di valore, cioè la contrapposizione tra uno stile moderno, scattante, rocambolico, adrenalinico, e una scrittura del passato, indigesta, eccessivamente descrittiva, un’opinione che richiama il tedio che ci prendeva a scuola alla lettura de I promessi sposi o di qualche libro consigliato dai professori. Questo si inserisce in un giudizio a priori per il quale tutto ciò che viene prodotto oggi nel campo dell’arte industriale (musica, letteratura, cinema) è per sua natura migliore di quello di ieri, il che comporta una rapidissima obsolescenza di opere pubblicate anche solo, diciamo, un anno fa.
Questa “santificazione della novità”, che certo non sono io a scoprire, e dalla quale in un certo senso già Brecht metteva in guardia, è perfettamente in linea con la logica del modo di produzione capitalista, e produce guasti irreparabili nel gusto del pubblico. È il rovesciamento del vecchio concetto di “età dell’oro” come tempo mitico dell’umanità, che fino all’illuminismo era identificato nell’era classica, l’antichità. Al contrario, oggi una malintesa idea di progresso tecnico continuo e inarrestabile svaluta istantaneamente i prodotti artistici pubblicati quando ancora quelle innovazioni non erano disponibili.
Questa è una possibile interpretazione. Ne esiste un’altra, più pessimista, che già Susan Sontag aveva stigmatizzato negli anni Sessanta, con riferimento al postmoderno: che ciò che molti chiamano Lentezza/Noia sia in realtà semplicemente la frustrazione di non riuscire a capire un certo tipo di arte per il quale non possediamo le capacità intellettuali. E la noia allora diventa terrore di perdere il nostro prezioso tempo nella lettura di Guerra e pace (“un mattone!”), nella visione di Solaris di Tarkovskij con sottotitoli, nella visita a un museo d’arte moderna o nell’ascolto dei Quartetti d’archi di Beethoven, mentre potremmo piuttosto goderci l’ultima serie TV che mette in scena un crossover con un mistero da risolvere, un conflitto narrativo molto netto, due o più trame intrecciate, personaggi meno stereotipati che nella fiction hollywoodiana, e qualche elemento fantastico – tanto per tenerci svegli.
C’è un terzo indicatore di questo atteggiamento che contagia i lettori – che chiamerei, con un orribile neologismo, spoilerfobia. Spoilerfobia è il terrore di vedersi rovinato il piacere della lettura per via di una anticipazione di dettagli della trama di un’opera di fiction. Il corollario è la (quasi) scomparsa delle sinossi dalle quarte di copertina dei libri, e dalle schede di pubblicizzazione, così che si è costretti a scegliere una lettura secondo altri criteri: magari il nome dell’autore, o – rieccoci – il consiglio di chi già l’ha letto, perché si sa che il Gusto è Assoluto. La spoilerfobia assume aspetti parossistici, con avvertimenti ***ATTENZIONE SPOILER!*** rimarcati in rosso, seguiti da diverse righe bianche per separare il testo dalle “anticipazioni”, così che neppure per sbaglio l’occhio del potenziale lettore, per un movimento involontario, sfiori per un attimo quelle parole che scottano.
Bene, la verità è che nessuna prefazione, nessuna introduzione critica, nessuna quarta di copertina ha mai rivelato la fine di un libro, l’identità dell’assassino o la soluzione di un thriller. Questo atteggiamento di prudenza massimalista è soltanto un aspetto di un Feticismo della Trama che spinge a un malinteso: a credere cioè che la letteratura sia le storie raccontate nei libri, e non il modo in cui queste storie vengono raccontate.
Spingendo questo Feticismo della Trama agli estremi, si potrebbe sostenere l’inutilità di un capolavoro come Il maestro e Margherita, dal momento che… lo sappiamo: Gesù Cristo è stato condannato a morte. Secondo lo stesso principio, due autori che scelgono di raccontare la medesima storia, magari una storia vera romanzata (che so, la morte di Rasputin, la vita di Alessandro Magno, il massacro del Circeo) produrrebbero opere equivalenti, perché il valore è nella vicenda in sé, nel plot, e non non nell’intreccio, nello stile, nelle scelte sintattiche, grammaticali e ritmiche di chi scrive.
Se il lettore legge un’anticipazione, che potrebbe essere assolutamente secondaria, sente guastarsi il piacere della lettura; ecco allora che torna il discorso della Noia: se l’autore non mi sorprende con qualche trick nella trama, non provo piacere, ritengo che il mio tempo sia sprecato. Eppure la verità è che, alla faccia di Ždanov, dello zdanovismo e del realismo socialista, in letteratura la Forma non può essere disgiunta dal contenuto: anzi la Forma è il contenuto della fiction.
Benedetto dunque il lettore che non teme la Noia.