Dimenticare Sangiuliano
Martedì 8 ottobre 2024, alle ore 11, il Ministro della Cultura Alessandro Giuli (1975), un mese dopo la sua nomina a seguito delle inevitabili dimissioni di Gennaro Sangiuliano, si è presentato davanti alle Commissioni Cultura di Camera e Senato per un’audizione congiunta. In quell’audizione Giuli ha chiaramente puntato a due obiettivi: fare sfoggio della sua presunta caratura intellettuale e sottolineare aspetti tecnico-politici e politico-culturali delle linee programmatiche del suo Ministero.
Giuli esordisce, apparentemente a braccio, citando l’Articolo 9 della Costituzione – “saldo punto di riferimento e di ancoraggio” –, muovendosi così in un solco chiaramente costituzionale e repubblicano, per poi passare a leggere quella che lui stesso definisce “una parte un po’ più teoretica”, ovvero un susseguirsi di frasi tanto roboanti quanto criptiche che vale la pena seguire per intero:
“La conoscenza è il proprio tempo appreso con il pensiero. Chi si appresta a immaginare un orientamento per l’azione culturale nazionale non può che muovere dal prendere le misure di un mondo entrato nella dimensione compiuta della tecnica e delle sue accelerazioni. Il movimento delle cose è così vorticoso e improvviso, così radicale nelle sue implicazioni e applicazioni che persino il sistema dei processi cognitivi delle persone, non solo delle ultime generazioni, ha cominciato a mutare con esso. […] Di fronte a questo cambiamento di paradigma, la Quarta rivoluzione epocale della Storia delineante un’ontologia intonata alla rivoluzione permanente dell’infosfera globale, il rischio che si corre è duplice e speculare: l’entusiasmo passivo che rimuove i pericoli della ipertecnologizzazione e per converso l’apocalittismo difensivo che rimpiange un’immagine del mondo trascorso, impugnando un’ideologia della crisi che si percepisce come processo alla tecnica e al futuro, intese come una minaccia. Siamo dunque precipitati nell’epoca delle passioni tristi? No. Fare cultura è pensare sempre daccapo, riaffermare continuamente la dignità, la centralità dell’uomo, ricordare la lezione di Umanesimo integrale che la civiltà del Rinascimento ha reso universale.”
A ben vedere, Giuli cerca per sé e per la Destra neofascista di Governo un posizionamento ben piantato nel presente: non siamo portatori di un vecchio ciarpame nostalgico e miseramente nazionalista e provinciale, sembra dire, sappiamo che è in corso un cambiamento epocale che parte da una rivoluzione tecnologica che muta nel profondo lo stesso cervello umano e le sue competenze e potenzialità. E tuttavia, nel chiarire questi aspetti, il Ministro sente il bisogno di fare sfoggio di un’erudizione prêt-à-porter gettando nel mucchio paroloni (“ontologia intonata”) e neologismi (“apocalittismi”) un po’ a casaccio. Parole ed espressioni che in alcuni casi non aggiungono nulla ma si ripetono nella lunghissima ora del suo discorso: “Quarta rivoluzione scientifica” e “infosfera” (che certamente derivano da una lettura diretta o indiretta delle teorie di Luciano Floridi), “spirituale”, “bellezza”, “genius loci” e “genio italiano”, “identità”. Nella gran parte dei casi appaiono come parole prive di un reale e tangibile radicamento materiale rispetto agli argomenti e alle proposte politiche del discorso del Ministro.
Nel suo fondamentale Cultura di destra (Garzanti, 1979 – ora nottetempo, 2011), Furio Jesi (1941-1980) usava l’espressione “idee senza parole” per riferirsi a tutto l’apparato discorsivo della destra neofascista ed evoliana – universo al quale appartiene pienamente Giuli –: per Jesi si tratta di un linguaggio allusivo e quasi esoterico che mette in moto una vera e propria macchina mitologica che produce elementi identitari in cui riconoscersi senza che questi elementi – insieme spesso confusionari – abbiano una qualche concretezza se non quella di fondare riferimenti monumentali. Più roboante il lessico proferito, più monumentale l’elemento identitario prodotto.
Ma non si tratta qui di stare al mero dato della parola proferita (il detto) ma anche al modo di proferirla (il dire). Sarebbe infatti necessario non limitarsi al solo testo verbale del discorso perché, guardando attentamente il video, è impossibile non notare la prossemica dell’uomo: muove nervosamente le mani, ruota sulla sedia poggiando i gomiti sui braccioli come se stesse sempre lì lì per alzarsi. Nella prima parte la sua voce stentorea quando inizia con “La conoscenza è il proprio tempo appreso con il pensiero” imposta un tono e un ritmo decisamente incalzanti: sembra sovraeccitato, ha un’ansia da prestazione. Ma perché un uomo che ha ottenuto un incarico così importante per restituire dignità ad un Ministero degradato è così preoccupato del suo risultato performativo? Esattamente perché la Destra rappresentata da Giuli vuole mostrarsi come seria, intellettuale – persino in una maniera parossistica –, affidabile sia sul versante della Cultura filosofica e sia su quello della gestione politico-culturale e tecnicistica di un Ministero (non del tutto) di secondo piano. Il nodo è: dimenticare Sangiuliano, ovvero la nuova vecchia Destra cialtronesca e buffonesca, arruffona, proprietaria di biblioteche private ostentate e piuttosto pasticciate, una Destra fatta di gaffeur e parvenu della Cultura (sempre in maiuscolo!). In fondo sono tutte anime che da sempre convivono nella Destra italiana dal fascismo a Meloni, passando dal maestro intellettualoide esoterico-spiritualista Julius Evola fino al berlusconiano professor Giuliano Urbani e oltre.
Non è una supercazzola, è un programma
Dal superamento dell’esperienza Sangiuliano bisogna allora ripartire per leggere (e guardare) bene il discorso del Ministro. Prevedibilmente, la prima parte ha scatenato una tempesta social che ha investito Giuli di insulti, sfottò e meme, non del tutto a torto: innegabile che la cifra dell’uso dei social media oggi sia anche quella dello sfogo e dell’odio e il potere pubblico e i suoi rappresentanti, del resto, rischiano inevitabilmente di essere esposti alle tempeste. Chiedere a Sangiuliano a margine della premiazione del Premio Strega del 2023.
E tuttavia in questo caso non basta. Bisogna andare oltre
Alessandro Giuli ha un’idea chiara di quale indirizzo dare al suo dicastero e snocciola un programma dettagliato. La parte certamente più vaga se non povera – rinviata ad un non precisato approfondimento futuro – è proprio quella riguardante la “centralità” delle biblioteche e un supporto alle iniziative del mondo editoriale e della lettura: per noi, che facciamo un quotidiano di libri con approfondimenti, è certamente troppo poco.
Per quanto al mondo dell’arte ha proposto una semplificazione dei prestiti del patrimonio italiano all’estero e un impegno di collaborazione continuativa per la salvaguardia del patrimonio ucraino minacciato dalla guerra scatenata dalla Russia. Ha esaltato, come sempre si conviene nel campo moderato, il ruolo delle forze dell’ordine impegnate nella salvaguardia del patrimonio. Ha parlato di un importante Piano nazionale della fotografia, si è speso sulla necessità per un potenziamento delle arti performative e investimenti mirati per quanto riguarda il cinema, con interventi finanziari e fiscali. Inoltre, ha dichiarato di voler promuovere il rapporto tra intelligenza artificiale e arte per “alimentare un’economia della cultura”.
A un deciso investimento sulla Biennale di Venezia ha fatto corrispondere la necessità di un coordinamento dell’offerta culturale che intervenga per fare da argine allo spopolamento della dorsale appenninica, in particolare a Sud, dove ha rilanciato il ruolo del MAXXI Med di Messina da coordinare con la nascita di una Biennale del Mediterraneo a Taranto: il Meridione come ponte con la costa Sud del Mediterraneo come “strumento di creazione di corridoi culturali”. Si tratta, occorre sottolinearlo, della stessa identica Destra che da decenni rifiuta i corridoi umanitari per gli esseri umani che migrano e verrebbe da chiedere al Ministro cosa ci sia di “umanistico” in un ponte su cui transitano culture ma non gli esseri umani che le producono.
Del resto, Giuli ha inserito questo Meridione-ponte “nella più ampia strategia del Piano Mattei” per un’Africa che, insomma, viene vista ancora come un continente privo di cultura, dove non ci sono soggetti produttori ma vittime da soccorrere anche intellettualmente e a “casa loro”.
Per di più, a riprova di un discorso che si è fatto via via più ecumenico, ideologicamente onnivoro e, diciamolo, noiosamente democristiano, il Ministro ha fatto propria un’idea di identità “come fattore di dialogo” in senso “plurale”, rilanciando un museo della Shoah a Roma e omaggiando la senatrice a vita Liliana Segre e riaffermando la centralità del Parlamento (lo stesso Parlamento che la sua maggioranza sta disperatamente cercando di esautorare attraverso autonomia differenziata e premierato).
Alla fine viene da chiedersi se davvero, come scrivono in tanti, il neofascismo meloniano stia creando una nuova “egemonia”, quanto piuttosto, per accreditarsi anche nel mondo della Cultura (maiuscola), stia cercando di cucire insieme un patchwork postmoderno di idee contraddittorie tenute insieme solo da promesse di potere.
Decostruire Giuli, decostruire noi stessi
A questo punto, se si volesse affondare il colpo con una critica che si collochi realmente su altri piani rispetto a quelli di Giuli e la sua congrega bisognerebbe far notare che il Ministro ha declamato grandi nomi da Pitagora a Verdi e Marconi passando per Botticelli: tutti uomini, tutti occidentali. Per Giuli fare cultura sarebbe “ricordare la lezione di umanesimo integrale che la civiltà del Rinascimento ha reso universale”: un universalismo che proprio a partire dalla prima Modernità europea si è manifestato come coloniale e suprematista, cioè che quella modernità è integralmente coloniale. Chi sono i soggetti che parlano della cultura? Dove sono posizionati? Sono bianchi, neri, altro? Chi la fa questa “cultura”? Dentro quali geografia agisce e quali cartografie produce? A chi appartiene, chi e come la valuta e ri/significa quella che Giuli ha chiamato una “ricerca disinteressata di verità e bellezza”? Come hanno ampiamente dimostrato C.L.R. James (I giacobini neri, 1938) e Frantz Fanon (I dannati della terra, 1961) alla “nostra” bellezza è corrisposto lo sfregio di intere civiltà attraverso sfruttamento, razzismo e de-umanizzazione con il contraltare di rivendicazioni e rivolte che hanno cambiano (anche il nostro) mondo. Verrebbe da chiedersi: perché non una parola sulla distruzione e l’annullamento della Cultura e dei suoi luoghi di produzione, preservazione e divulgazione in Palestina?
Del resto, sempre per restare nel campo occidentale ma con riferimenti evidentemente non condivisi dal nostro Ministro, già Hanna Arendt nel monumentale Le origini del totalitarismo (1951) e Max Horkheimer e Theodor Adorno nella Dialettica dell’Illuminismo (1947) hanno dimostrato come quella modernità nasce all’interno di ambivalenze radicali e pervicaci esclusioni e accerchiamenti. La razionalità del cogito cartesiano insomma non è innocente e non è universalmente umana, né umanamente universale. Non basta citare Adriano Olivetti – come ha abbondantemente fatto nel suo discorso il Ministro – e una “cultura” dei luoghi, dei contenitori e dei contenuti se non si considera con chi, come e dove si producono continuamente pratiche culturali che sfuggono alla cattura dei luoghi, che nascono da conflitti, senza cioè partire dalla attenta considerazione dell’emergenza dei gruppi subalterni come invitava Gramsci nei suoi Quaderni. Quaderni del carcere, è bene ricordarlo: il carcere nel quale gli antenati politici di Giuli avevano rinchiuso e ucciso Gramsci, di cui poi il Ministro ha provato ad appropriarsi con il suo Gramsci è vivo. Sillabario per un’egemonia contemporanea (Rizzoli, 2024).
Non si tratta di fare qui del banale politicamente corretto e nemmeno del relativismo: quanto piuttosto posizionarsi dentro le contraddizioni profonde della conflittualità moderna. Prenderla di petto e restituirgli anche la dignità di una tragedia.
Quello che manca nel discorso del Ministro della Cultura, così come nelle divertite critiche da social, è proprio il coraggio della complessità che appartiene al nostro tempo (forse) ancor più che ad altri. Nel 1991, nel bel mezzo di un altro cambiamento epocale – non meno importante di quello a cui si è riferito giustamente Giuli –, in un intervento significativamente intitolato Il significato dei “nuovi tempi”, il critico caraibico-britannico Stuart Hall metteva in guardia sulla necessità di considerare non solo la produzione dei cambiamenti in seno ad una cultura – così come ad una politica, ad un’ideologia e ad un’identità – ma anche alla produzione di nuovi soggetti e nove soggettività. Scriveva Hall:
tutti veniamo da qualche luogo, anche se si tratta di una “comunità immaginata”, e che abbiamo bisogno di un qualche senso di identificazione e di appartenenza. Una politica che trascuri questo momento di identità e di identificazione – il che non significa affatto pensarle come qualcosa di permanente, fisso ed essenziale – non sarà probabilmente capace di mettersi alla testa dei “nuovi tempi”.
Non c’è alcuna egemonia della nuova vecchia Destra, dunque?
Non basta appropriarsi di Gramsci, insomma, e nemmeno presentarsi con una kippah in sinagoga per un personaggio politico che con nonchalance e senza (auto)critica ricorda nostalgicamente la partecipazione del nonno alla Marcia su Roma. Ma questo, forse, è già un altro capitolo.