È un viaggio nella disperazione questo romanzo di Niviaq Korneliussen, e lo capiamo immediatamente: i numeri dei capitoli vanno a ritroso – da quarantacinque a uno, un conto alla rovescia, un presagio. È in questo modo che la poco più che trentenne autrice groenlandese che con questo titolo si aggiudica il Premio del Consiglio Nordico – il più alto riconoscimento letterario scandinavo –, denuncia la sua terra come il paese con il più alto tasso di suicidi al mondo. L’autrice non spiega i motivi di questo primato e condanna apertamente un Sistema incapace di prevenire e affrontare in maniera adeguata depressione e quant’altro porta le persone, soprattutto i giovani, a suicidarsi.
Korneliussen, tramite i ragionamenti della giovane inuit protagonista della storia, di cui mai conosceremo il nome, fornisce interessanti considerazioni come, per esempio, il fatto che prima della modernizzazione forzata della Groenlandia, iniziata negli anni Cinquanta, il numero dei suicidi tra i giovani e gli adolescenti inuit era di gran lunga inferiore a quello dei nostri giorni. Vien quindi da chiedersi se un popolo costretto ad abbandonare le proprie millenarie tradizioni e la propria cultura, perdendo così la propria identità, non smarrisca anche l’equilibrio e il senso dell’esistenza. Oppure se il trovarsi ai margini di un Occidente globalizzato con un modo di vivere e comunicare così diverso – un inuit intende che chi dà “aria alla bocca” è uno che respira male non uno che dice fesserie –, possa insinuare nei loro animi un costante senso di disagio e inadeguatezza.
La valle dei fiori dà anche elementi per formulare altre ipotesi: dato che la mancanza di luce non pare essere il fattore scatenante di questi tragici gesti – la maggior parte dei suicidi avviene nelle stagioni più luminose, tra la primavera e l’estate – potrebbe essere che il chiarore più diffuso renda ancor più difficile convivere con dei corpi che gli adolescenti inuit trovano scuri, pesanti, sporchi rispetto alle immagini proposte dai loro smartphone, come capita alla protagonista del romanzo? “Non ce la faccio più a stare nel mio corpo”, confessa con disperazione più di una volta la ragazza. O invece è l’aspettativa di queste giornate di luce, nata col fantasticare durante le interminabili notti invernali, a creare una delusione difficile da sopportare tanto da far sembrare la Groenlandia un “paese di condannati a morte”?
È vero che il tema della morte, anche declinato nella modalità del suicidio, non è una novità in letteratura, ma il tono asciutto e sfrontato con cui la scrittrice tratta l’argomento non lascia indifferenti – sono lapidari gli incipit che aprono i capitoli della prima parte del libro: “Ragazzo. 17 anni. Si è sparato in un capannone”. Lascia il segno anche il tanto spazio dedicato all’incapacità degli adolescenti inuit di esprimere i sentimenti, alla loro sensazione di non sentirsi parte della Società, di non sapere come comportarsi con gli altri e di come anche l’amore nulla possa di fronte alla mancanza d’identità. Inoltre, il romanzo mette in guardia sull’inutilità di cercare conforto sui social, perché anche lì difficilmente si viene ascoltati: “Vedo il profilo della mia compagna di scuola e leggo il suo ultimo post, di un paio di notti fa. Chiede a Facebook se c’è qualcuno che ha voglia di andarla a trovare. Solo una persona ha messo mi piace”.