Nila / Testimonianza da Teheran (e di più)

Nila, Nelle strade di Teheran, tr. dal francese di Vincenzo Barca, Feltrinelli Gramma, euro 15,00 stampa, euro 9,99 epub

Dans les rues de Téhéran è stato pubblicato per la prima volta in Francia nell’autunno del 2023 (edizioni Calmann-Lévy), con la traduzione dal persiano di Ambre Morier. Sono pseudonimi quello dell’autrice, Nila, e della traduttrice. All’origine ci sarebbe un breve articolo pubblicato in forma anonima sul sito Words Without Borders, intitolato “Sono una testimone” (25 gennaio 2023) e notato da un redattore di Calmann-Lévy che propose all’autrice di svilupparlo in un libro.

È necessario conoscere questa storia, non così immediata da rintracciare (Humanite.fr), per credere all’esistenza reale e individuale di Nila, una donna di circa quarant’anni che vive a Teheran e della quale non sappiamo nulla (formazione, professione, estrazione sociale, aspetto), se non che è nata negli anni della rivoluzione khomeinista e dal 2022 si è unita al movimento Donna, Vita e Libertà.

Le rivolte popolari in piazza sono scoppiate nel settembre 2022, dopo che Mahsa Jina Amini, una giovane ragazza curda, è stata arrestata dalla polizia morale per aver indossato l’hijab in modo non appropriato, ovvero lasciando scoperta una parte dei capelli, ed è deceduta tre giorni dopo, ufficialmente per una crisi cardiaca. Lo slogan Donna, Vita e Libertà è in realtà di antiche origini, essendo impiegato già da qualche decina di anni dai gruppi di indipendentismo curdi, ma oggi è stato adottato da un movimento che, partendo dall’opposizione all’oppressione giuridica, politica, culturale femminile, ha innescato una rivolta per i diritti fondamentali di tutti. Il governo iraniano ha risposto con una dura repressione (arresti indiscriminati, esecuzioni, umiliazioni e stupri: si vedano i rapporti di Amnesty International), stringendo ulteriormente le maglie del controllo sulle donne, aumentando il numero delle guardie che negli spazi pubblici verificano il rispettare dell’obbligo di portare il velo e di mantenere il “decoro” che è il segno esteriore, palpabile, della subordinazione al sistema di potere vigente.

Non è facile raccontare e comprendere dall’esterno quanto è accaduto in Iran negli ultimi due anni (ci ha provato anche la scrittrice Marjane Satrapi, iraniana naturalizzata francese, nel racconto a fumetti Donna, vita e libertà, Rizzoli 2023). Nila sostiene che questa rivolta è diversa dalle altre: da quella del 2009 (c.d. “Onda verde”, scoppiata dopo la seconda elezione di Ahmadinejad) e da quella del 2017-2019: in entrambi quei casi era stato ipotizzato il crollo imminente, poi non avvenuto, della Repubblica Islamica. Che stia accadendo qualcosa di diverso è anche l’opinione della sociologa Rassa Ghaffari (autrice di Strade di donne in Iran. Generi, generazioni, proteste, Astarte Edizioni 2023), nata da genitori iraniani fuggiti in Italia nel 1979, allo scoppio della Rivoluzione.

La disobbedienza civile oggi sembra più diffusa e tenace perché donne e uomini di ogni estrazione sociale hanno partecipato alle manifestazioni, quasi tutti giovanissimi e stanchi della remissività delle generazioni precedenti. Per la prima volta la rivolta è inclusiva e intersezionale, coinvolge tutte le fasce discriminate dal governo. Proprio Rassa Ghaffari sottolinea come sia necessario riportare per intero il nome della prima ragazza uccisa, diventata il simbolo della ribellione. Lo Stato impedisce alla popolazione curda di dare nomi curdi ai propri figli; ragione per cui molte famiglie utilizzano due nomi, uno ufficiale (Mahsa) e uno privato, usato nella sfera domestica (Jina). Citarla con il solo nome persiano riduce quella intersezionalità che è la forza del movimento.

«Non siamo più lo stereotipo di un paese sfortunato. Incarniamo la contestazione», scrive Nila in questo libro particolare, dal tono narrativo a tratti lirico, anche nei momenti più drammatici come nella narrazione del vagare quasi onirico per le strade di Teheran durante le manifestazioni (dove il rischio di essere arrestati è altissimo). Nelle strade di Teheran non è un saggio e neppure una narrazione biografica, per quanto l’inizio potrebbe far pensare a un memoir in prima persona: «In questi ultimi mesi, esco di casa quasi sempre quando è ancora giorno, verso le tre o le quattro»).

Alcuni elementi che traspaiono dal libro sono specifici di una cultura molto diversa da quella europea. Su tutti, il profondo amore per il proprio paese (a esergo del libro c’è il bellissimo verso di Anna Achmatova: “Ero allora col mio popolo / Là dove il mio popolo, per sventura, era”) e l’amore per la letteratura e la poesia. Chi non è stato a Shiraz, nel sud dell’Iran, alla tomba di Hafez, uno dei più noti poeti persiani, non può immaginare l’affetto per la propria cultura, il senso di appartenenza a un sentire comune e il sentimento di pace che la poesia ispira in generazioni di iraniani, anche nelle più giovani; è come se la tomba di Dante a Ravenna fosse lo spazio di ritrovo, ogni sera, di centinaia di uomini e donne, ragazzi e ragazze.

«In persiano, noi non leggiamo la poesia, la consumiamo come la droga»; Nila legge solo poesia, ama molto Fernando Pessoa e anche questo appropriarsi della letteratura occidentale, utilizzandola come cassa di risonanza dei propri malesseri e del desiderio di rivalsa, è qualcosa che si ritrova in altri scrittori iraniani (spesso espatriati all’estero, come Azar Nafisi). Infine, è una nota specificatamente persiana il fatto che la musa ispiratrice dell’emancipazione sia una figura religiosa, la teologa poetessa e mistica Tahereh, vissuta tra il 1817 e il 1852, anno in cui fu uccisa dopo tre anni di prigionia. Aderente al movimento messianico del Babismo, per alcuni è stata una eretica. In una occasione pubblica si sarebbe tolta il velo, o l’avrebbe soltanto scostato davanti al viso – le narrazioni divergono.

Nello spirito di Tahareh, i veli che le donne hanno gettato nei fuochi accesi nelle notti delle manifestazioni sono diventati “il combustibile della rivoluzione”. Il velo delle donne nei paesi mussulmani incarna da molto tempo, nei media occidentali, il simbolo più evidente dell’imposizione patriarcale e religiosa e molto spesso serve, a tutte le parti, per semplificare e ridurre di profondità la questione femminile. Vietato ai tempi dell’ultimo Shah, poi imposto dopo la rivoluzione del 1979, il velo è stato sempre uno strumento di rappresentazione dell’immagine della donna iraniana al di fuori del paese. Ne sono prova le fotografie di donne in minigonna dell’epoca ante-1979 mostrate periodicamente sui media e sui social come a richiamare un’età dell’oro, quella dei Pahlavi, a dire il vero molto discutibile da vari punti di vista: le discriminazioni contro le minoranze come i curdi si intensificarono proprio negli anni Venti e Trenta in nome di un progetto nazionalista “persiano”, mentre i diritti e la libertà femminile, negli spazi pubblici e privati, non erano allora elementi così diffusi in un paese dalle forti differenze di classe e dove il tasso di alfabetizzazione era molto più basso rispetto a quanto sarà nell’era post-Khomeini.

Un esempio sconfortante dell’impronta patriarcale trasversale dall’età monarchica a quella post-rivoluzione, raccontato nel libro, è quello delle vicende delle donne che componevano l’harem dei Qajar, la dinastia che regnò dal 1724 al 1925: all’ascesa dei Pahlavi l’harem fu sciolto e le donne abbandonate alla periferia della città, dove gradualmente prese forma un quartiere prevalentemente femminile di case chiuse (c.d. Città nuova). Nel fervore nella Rivoluzione, una sera del 1979, le donne furono accerchiate dalla folla e bruciate vive.

Le donne iraniane che negli ultimi due anni sono scese in piazza usano il velo come strumento di affermazione, con l’obiettivo di una rivoluzione culturale, sociale, intellettuale contro il potere, non contro l’Islam. Scrive Nila: «Gli storici daranno il loro giudizio, ma spero scriveranno che, più che dagli atei, la Repubblica islamica è stata sconfitta dai credenti che hanno preferito separare il loro Islam dal suo».

Un gesto spavaldo che si è diffuso e moltiplicato nei giorni delle manifestazioni è stato quello di far cadere il turbante dalla testa dei mullah. Farlo cadere e lanciarlo lontano. È come se lo scoprire la testa fosse diventato improvvisamente il segno: della libertà afferrata, anche solo per un istante, da parte delle donne; ma anche della fragilità degli oppressori e del decoro formale che essi esprimono e impongono. In un paese dove il costume determina il ruolo e il rispetto, far cadere il turbante o togliersi il velo sono diventate azioni audaci di irrisione e di smascheramento del potere e della gerarchia. E la testimonianza di tutto questo, come scrive l’autrice, è qualcosa di più ardente del semplice vivere, perché testimoniare significa essere artefici del destino proprio e collettivo. Attendere, come testimone, che il re muoia, è tutt’altra cosa dall’attendere e basta.