Nikolaj Gogol’ / Tra le mura del manicomio

Nikolaj Gogol’, Memorie di un pazzo, cura di Serena Vitale, Adelphi, pp. 103, euro 10,00 stampa, euro 4,99 epub

Pietroburgo, intessuta di sogni e di nebbiosa sostanza palustre, contrada degli spiriti, infinità di fuggenti prospettive nella descrizione di Belyj, teatro di evanescenti illusioni dal quale Nikolaj Gogol’ fa “germinare pupazzi irreali”, per usare le parole di Ripellino. Una di queste è Popriščin, impiegato dell’amministrazione pubblica affetto da patologica mania di grandezza. La critica dell’elefantiaca macchina burocratica russa passa in secondo piano di fronte all’impressionante capacità visionaria, un carattere ben evidenziato da Nabokov nel noto saggio che volle dedicare allo scrittore. Il Gogol’ creatore di universi refrattari a qualsiasi istanza realistica emerge nelle Memorie di un pazzo, fondamentale quanto a volte trascurato tassello delle narrazioni pietroburghesi, eclissato dalla celebrità del Naso e del Cappotto. Pubblicarlo al di fuori della silloge consueta significa stagliarne la grandezza, evidenziando nevrosi che intaccarono l’integrità dell’autore stesso.

“Confesso che da qualche tempo ho cominciato a vedere e sentire cose che nessuno ha mai visto o sentito”, afferma Popriščin, immergendosi nei misteri dell’irrazionale, svelando le ossessioni che abitavano lo stesso Gogol’. Questi, infatti, viveva in una realtà parallela, in mondi paludosi che finirono per inghiottirlo. Le Memorie di un pazzo sono l’immersione in una mente malata, il progressivo scivolare in un delirio incontrollabile. Come nel Demone meschino di Sologub, la paura precipita l’uomo nella follia. La confusione che alberga nell’io del protagonista si traduce in un linguaggio punteggiato di allusioni all’intero corpus gogoliano: “per poco non mi si è scollato il naso”, si legge a un certo punto. Del resto quello che Nabokov chiama “il leitmotiv nasale” è sparso a piene mani in tutta la sua opera. Gogol’ letteralmente “vedeva con le narici”, fiutava il mondo come una presa di tabacco. Come nella conclusione del Naso, si ribadisce che eventi a prima vista assurdi accadono, raramente ma è indubbio che si possano verificare. Anche il vecchio cappotto indossato da Popriščin, quasi un simbolo della sua insignificante figura e del suo smarrimento, richiama il racconto omonimo.  La lingua non gli obbedisce più o meglio, riesce a mostrare solo il lato più recondito dell’inconscio.

La pazzia, come in Hoffmann, scolora nel grottesco. Cani si esprimono come esseri umani, anticipando gli orizzonti di Bulgakov, provocando un certo stupore nel protagonista. Il delirio che lo avvince si fa sempre più fitto. Il diavolo, al quale forse Gogol’ credeva più che in Dio, si affaccia dalle quinte del palcoscenico, un teatro dell’assurdo in bilico sul nulla. La sagoma del manicomio inizia a profilarsi nelle ultime pagine. Ombre e incubi inghiottono Popriščin, che arriva a indossare i panni fittizi del re di Spagna. Circondato da una corte immaginaria, avvolto da sagome spettrali, si dibatte nella sua cella, vittima di violenti trattamenti ancor più dannosi per la sua sanità mentale. Il volume è corredato da una interessante appendice riguardo Il Vladimir di terzo grado, opera teatrale incompiuta che prefigura i rovelli di Popriščin, l’insanabile frattura che compromette la sua individualità.