“In qualche posto dopo l’anno zero”, così inizia l’ultimo romanzo di Nicoletta Vallorani, evocando un imperativo che era stato frequente nella fantascienza, quello della rottura con il presente e della ripartenza per la costruzione del futuro. Catastrofi naturali, nucleari, belliche e infine sociali sono stati al centro di una fantascienza che desiderava superare lo stato di cose presenti, innescare una trasformazione, pensare una via di uscita da questo nostro mondo. Però, a differenza di molti classici anche di altissimo livello, la catastrofe di questo romanzo non è un evento devastante ma è la nostra vita quotidiana, il nostro vivere di disuguaglianza, di micro-violenza, di sopraffazione a cui, complessivamente, abbiamo reagito con continue micro-accettazioni, abituandoci. Insomma la vita di tutti i giorni, con le epidemie, la fine della politica rappresentativa, le guerre distribuite su tutto il pianeta, le involuzioni autoritarie, il saccheggio capitalista di ogni risorsa naturale e collettiva, l’esternalizzazione della violenza repressiva a strutture private o a una polizia fuori controllo, il destrutturarsi del welfare faticosamente conquistato.
In Memorie di una sopravvissuta di Doris Lessing (che sembra intuire già nel 1972 la progressiva dissoluzione della società britannica, che inizierà politicamente nel 1979 con il governo di Margareth Thatcher e il battesimo del neoliberismo), possiamo osservare come una serie di peggioramenti progressivi del tenore di vita e delle garanzie sociali vengono faticosamente assorbiti dalle persone e, alla fine accettati, attraverso tattiche personali di sopravvivenza. E un giorno ci si accorge che tutto è andato perduto, come oggi, nei tempi tetri del social network. Noi siamo campo di battaglia inizia da questo punto, dall’osservazione che la nostra società (intesa nella visione più complessa dei diritti, dei servizi, della sicurezza collettiva e, soprattutto, dei rapporti affettivi) si dispiega ora come un’immensa catastrofe a cui si è arrivati per piccoli passi, visibile appieno solo quando gli ultimi pezzi del puzzle autoritario hanno riempito lo spazio vuoto che li attendeva.
Libro impegnativo, forse da leggere più di una volta, perché attacca molte delle nostre abitudini, le sovverte, insidia dubbi su noi stessi. I diversi elementi della narrazione che emergono nel romanzo sono imprevedibili e difficili da tenere sotto controllo, sono pensieri ribelli che si ritorcono e spesso contestano il nostro modo di vedere la politica e la vita. La narrazione segue in maniera intermittente tre centri: la catastrofe, la repressione, la resistenza. Come nel rizoma, e soprattutto nella descrizione che ne danno Deleuze e Guattari, questa narrazione “collega un punto qualsiasi con un altro punto qualsiasi, e ciascuno dei suoi tratti non rimanda necessariamente a tratti dello stesso genere, mettendo in gioco regimi di segni molto differenti ed anche stati di non-segni. Rispetto ai sistemi centrici (anche policentrici), a comunicazione gerarchica e collegamenti prestabiliti, il rizoma è un sistema acentrico, non gerarchico e non significante”. Gli stessi tempi e spazi del racconto di Vallorani sembrano avere collegamenti segreti o, almeno, poco evidenti, favoriti dalla moltiplicazione dei soggetti narranti e dello scambio continuo tra soggetto e oggetto della narrazione. L’osservazione di Deleuze e Guattari sviluppata in Mille piani, che non a caso mostra il sottotitolo Capitalismo e schizofrenia, introduceva il concetto di nomadicità come tecnica di collegamento non gerarchica tra i diversi elementi, spesso eterogenei e lontani. Vallorani mostra questo tipo di sensibilità, sfuggendo a un racconto di percorsi gerarchici, per addentrarsi nella materia meno scontata della molteplicità, del sistema aperto dotato di percorsi plurimi e di altrettanti valori mai scontati o univoci. Ma per come funziona la fantascienza – Vallorani è grande esperta sia come scrittrice sia come studiosa del genere – questo modello teorico non è sottostante alla narrazione, ma è la narrazione stessa, si esprime direttamente nella trama attraverso le azioni dei protagonisti: è vivente. Anzi possiamo leggere come le identità, le scelte e i rapporti tra i personaggi costruiscano un modello antigerarchico che coinvolge ogni loro espressione vitale.
Se l’aspetto che maggiormente colpisce alla prima lettura è quello di un romanzo che rappresenta la rottura con le gerarchie tradizionali del genere, della sessualità, dei rapporti familiari e dei rapporti sociali, un ulteriore aspetto è quello di rappresentare una pratica liberatoria costituita dall’incessante costruzione di una rete in cui i nodi sono cangianti. Le persone rappresentano i nodi e la loro evoluzione radicale si trasmette a tutti gli altri che hanno accettato di connettersi alla loro struttura. La rete è certo un concetto ormai abusato, soprattutto se applicato agli umani, trattato spesso con superficialità e demagogia, ma Vallorani riporta con la sua narrazione al problema essenziale, quello di una pratica reale di questo modello emotivo/comunicativo, quello della riappropriazione personale e politica di un progetto di trasformazione. La fantascienza, attraverso “metafore letteralizzate”, aveva rappresento la rete fisica tra le persone come un sistema tecnologico di connessione (gli individui carnalmente cablati che partono almeno da La ragazza collegata di James Tiptree/Alice Sheldon, per arrivare fino agli spinotti neuronali di William Gibson), in Noi siamo campo di battaglia la connessione avviene attraverso la condivisione di una strategia di resistenza radicale contro l’aggressione di un sistema che si illude di contenere la propria crisi imponendo i modelli elitari del passato con la violenza. E quella del potere è una violenza come metodo.
Molti dei racconti e dei romanzi pubblicati in precedenza da Vallorani si protendevano verso questo romanzo, soprattutto nel presupposto di un vedere e agire collettivo e – a partire da Le sorelle sciacallo del 1999 – nel compimento di un’evoluzione verso un “personaggio multiplo”, che non è certamente solo la visione corale spesso praticata da molti letterati per garantire la pluralità dei punti di vista, ma la scoperta di una dimensione d’incompletezza dei singoli individui che trova un compimento solo nel costituirsi in un organismo collettivo. Forse è stato Theodore Sturgeon, con Nascita del superuomo (1953), a introdurre l’idea di un salto evolutivo dell’umano verso forme caratterizzate da una molteplicità di elementi viventi, ma Vallorani cerca una dimensione più antropologica che biologica, lucidamente politica, che costruisce come risposta all’emarginazione e all’esclusione anticipata dei giovani che non scelgono i binari della riproduzione passiva del potere esistente. Se uno degli elementi della narrazione è lo scontro generazionale, la consapevolezza che alcune generazioni abbiano rovinato il mondo che era destinato a quelle successive, la rottura che si esprime in Noi siamo campo di battaglia è decisamente radicale, perché, oltre allo statuto politico, definisce una rottura psicologica, intima, scritta con i codici di genere, con la scelta sessuale, richiamando l’appartenenza a culture migranti e attraverso una ricerca innovativa dei rapporti interpersonali, distruggendo e ricostruendo le logiche familiari. Immediatamente, all’inizio: “Si sono riuniti, come fanno spesso gli adulti che si pensano importanti, e hanno cominciato a dare nomi al passato, che è sempre una cosa comoda, perché quelli che stanno nel passato non possono sollevare obiezioni.” Il racconto di Lukas, il primo tra quelli dei ragazzi che costituiscono la nuova famiglia, è una dichiarazione di distanza dal potere che è duplice. Da un lato è praticata dal potere stesso, lontano, autoreferenziale, cinico, dilaniato da spietate lotte individuali, modulato sul modello dell’asservimento, dall’altro è la rottura speculare vissuta dai ragazzi, che il potere non lo desiderano, che hanno altri progetti, che hanno tratto una lezione fondamentale dal tracollo della loro società. La contestazione mondiale degli anni Sessanta-Settanta era stata caratterizzata da due anime che si sono rivelate inconciliabili. La prima poggiava sul paradigma “cambiamo la società per cambiare noi stessi”, ed è stata tipica delle organizzazioni militanti e militarizzate, finalizzate alla conquista del potere, seguendo più o meno la lezione bolscevica. La seconda seguiva la pratica “cambiamo noi stessi per cambiare la società”, ed era l’anima dei movimenti pacifisti e controculturali del mondo underground, della cultura e dell’arte, della sperimentazione immediata di nuove forme di comunità che potremmo definire di natura anarchica. Noi siamo campo di battaglia si colloca, a mio parere, all’interno della seconda anima, ma con una forte radicalizzazione che è conseguenza dalle molte sconfitte dei movimenti, quasi a ipotizzare un sacrificio ancora maggiore.
La catastrofe del romanzo è in realtà la nostra stessa realtà, abbiamo detto. Un’epidemia mondiale, associata al cambiamento climatico, all’impoverimento generalizzato, è usata in maniera strumentale per sperimentare e applicare modelli totalitari e militarizzati, come l’affiancamento di milizie armate, volontarie o private, alle forze dell’ordine dello stato e una legislazione d’emergenza di lunga durata. Insomma basterebbe guardare criticamente dalla finestra per osservare l’estendersi irreversibile di questo nuovo presente. Ma questa catastrofe, forse come aveva intuito James G. Ballard sin dai suoi primi romanzi, è in grado di avviare reazioni e mutazioni nelle persone che sono in grado di sintonizzarle con la nuova realtà. In una Milano in cui le erbacce prolificano tra i binari del tram, i cancelli sono sfondati, molti quartieri sono stati abbandonati ed occupati da nuovi abitanti, la cronaca della repressione contro i giovani che hanno trovato casa e hanno costruito loro rapporti sociali non lascia dubbi sull’evocazione della cronaca. La sproporzione di forza che abbiamo visto e vissuto durante il G8 di Genova (che Vallorani descrive nel suo racconto “Sono io quello!”, pubblicato nell’antologia Non siamo stati noi del 2003, e che è uno dei temi del romanzo Visto dal cielo) è la cifra del rapporto tra la violenza del potere in decadenza, rivolto al passato e a chissà quali fasti perduti, e la prospettiva di una nuova vita a partire dalle poche risorse rimaste, ma animata dal nuovo sapere collettivo dei ragazzi. Ed è da questo scontro, dalla violenza degli automi pagati per farlo, dalla libera espressione del sadismo vezzeggiato e protetto dalle leggi sempre più speciali che venga il titolo del romanzo. È la provocazione di un gesto estremo in risposta a ogni tipo di violenza, e il grido che la violenza non potrà bastare a impedire il futuro. Se il corpo delle persone diventa il campo di battaglia inevitabile, come era stato praticato durante il G8 nel corteo dei Disobbedienti in via Tolemaide, dove le rudimentali protezioni dovevano consentire al corteo di sopportare botte di ogni tipo ma di proseguire verso la “zona rossa”, praticando una nonviolenza attiva, nel romanzo di Vallorani comprendiamo il grande sacrificio a cui andranno incontro nel prossimo periodo i lavoratori schiavi della logistica, i precari, i poveri e i nuovi impoveriti dalle speculazioni della guerra, gli studenti, i migranti, i militanti dei diritti civili, i diversi.
Un ultimo tema, tra i molti ancora che troviamo in questa distopia sottile, dovrebbe essere al centro dell’attuale dibattito politico: l’abbandono delle origini. Un testo come Manifesto cyborg di Donna J. Haraway è permeato da questa osservazione teorica. Il saggio è del 1991 e l’introduzione di Liana Borghi che apre la traduzione italiana riporta una citazione di Italo Calvino tratta da Lezioni americane: “Oggi non è più pensabile una totalità che non sia potenziale, congetturale, plurima”. Naturalmente la citazione fa parte del capitolo “Molteplicità” dedicato all’esperienza del romanzo, e il periodo che precede la citazione di Borghi riguarda La montagna incantata di Thomas Mann: “Quella che prende forma nei grandi romanzi del XX secolo è l’idea d’una enciclopedia aperta, aggettivo che certamente contraddice il sostantivo enciclopedia, nato etimologicamente dalla pretesa di esaurire la conoscenza del mondo rinchiudendola in un circolo.” Ecco il rizoma che collega Mann, Calvino, Borghi, Haraway e Vallorani, la trasformazione del concetto di “enciclopedia aperta”, di contestazione della finitezza e dell’idea di un’opera chiusa, per arrivare alla forma gruppo composto da identità libertarie e liberate.
Ricordo che Daniel Pennac in un’intervista pubblicata sul periodico Leggere, aveva sostenuto che la speranza di risolvere in futuro i conflitti razziali risiedesse nel meticciato, non a caso nel romanzo La fata carabina si trova: “è il bastardo che fa l’uomo, a pensarci bene. Il meticcio è l’incrocio del futuro.” La logica meticcia, che poi è alla base della nostra stessa storia biologica, che ci vide esseri acquatici, richiede di puntare al futuro e non guardare al passato come un modello da rispettare. Senza ignorare le nostre origini, dobbiamo trasgredirle, non dobbiamo rispettare le leggi e i principi del passato ma sceglierne di nuovi. Il capitalismo e il patriarcato, inevitabilmente, sostengono inviolabile il sistema di leggi (ma anche di modelli emotivi) che hanno costruito al solo scopo di difendersi e perpetrare il loro dominio. L’hanno reso una cultura, una tradizione, un’abitudine, una scienza o una religione (e qui rimando all’eccezionale intuizione su cui si regge La notte della svastica di Katherine Burdekin) per mero calcolo opportunistico, per garantirsi il loro personale futuro. Noi siamo campo di battaglia raccoglie la contestazione di Haraway e ne fa romanzo.