Il sangue continua a uccidere

Nicola Lagioia, La città dei vivi, Einaudi, pp. 472, euro 22,00 stampa, euro 10,99 epub

È successo solo pochi anni fa. Fra il 3 e il 4 marzo 2016, in una notte a base di alcol, sesso e droga, i giovani Marco Prato e Manuel Foffo torturano e uccidono Luca Varani con un’infinità di coltellate e colpi di martello. I tre ragazzi sono praticamente coetanei e si conoscono poco. Il loro “incontro” è il frutto di un sistema di relazioni superficiali che viaggiano su un tessuto di rapporti legati alla prostituzione, allo spaccio e alle attività dei PR nell’ambiente discotecaro. Sullo sfondo, intrecciata con tutto il resto ma senza essere determinante, la vita della comunità gay.

Il fatto di cronaca nera, in un carosello di cinismo e luoghi comuni (al solito, straripanti) riempie immediatamente le prime pagine dei giornali e occupa i servizi in primo piano di telegiornali e talk show. Il delitto è avvenuto in un grande palazzo del Collatino, non certo centro storico ma nemmeno lontana periferia degradata o dimenticata. I tre giovani appartengono a tre ambienti sociali diversi: Marco Prato proviene da una famiglia cattolica, agiata, seria e stimata; Luca Varani vive in periferia ed è figlio di un venditore ambulante di dolciumi; Manuel Foffo, proprietario della casa, è tipico esponente della piccola borghesia cittadina.

Cosa sia successo è chiaro fin dal primo momento. I due giovani subito confessano, si costituiscono. Il caso sembrerebbe risolto. Ma non è così. Questa vicenda pone una domanda a cui né polizia né magistratura possono rispondere: perché?

Una luce che squarci il buio profondo di quella notte prova a definirla Nicola Lagioia, uno degli scrittori italiani attualmente più interessanti, già vincitore di un Premio Strega con La Ferocia (Einaudi, 2014). A Lagioia viene chiesto di indagare, di studiare, di capire e lui accetta di cimentarsi con una questione che sente non riguardare solo i soggetti coinvolti, ma anche lui stesso e la dimensione collettiva di esseri umani. Nasce così La città dei vivi, distribuito in libreria alla fine di ottobre.

Nicola Lagioia trascorre tre anni della sua vita ad analizzare, riflettere e scrivere. Non senza accortezza, si intrattiene con le famiglie dei tre giovani. Parla con i loro amici, con le fidanzate, incontra le forze dell’ordine che hanno indagato sull’omicidio. Scruta chiunque, iniziando dalla folla vociante ai funerali, dagli inneggianti vendetta fra lacrime, abbracci e palloncini colorati, alla grande platea televisiva, educata a vivere e a reagire con una teatralità che rende visibili (per poco tempo), ma che non lascia alcuno spazio alla riflessione. I quotidiani sfoggiano fantasia smisurata, parlano di sacrifici rituali o addirittura a un improbabile intervento dell’Isis. I ragazzi romani come foreign fighters metropolitani.

Nella matassa di suggestioni fantasiose e infondate, di morbosità a basso livello, i talk show televisivi non potevano restare in disparte. Nei palinsesti imperversano parenti e fidanzate delle vittime, gli studi si affollano di entusiasti del “reality” show. Sconcerto e disorientamento prevalgono, certo, ma personaggi autorevoli suggeriscono allo scrittore di rivolgere la sua attenzione alla massima autorità archetipa: il demonio.

Alla maggior parte di fruitori sembra evidente che i giovani coinvolti siano persone “normali”. Almeno quanto gli amici chiamati in tribunale a testimoniare. Tutti hanno problemi con familiari e genitori, molti si trovano a misurarsi con questioni di identità sessuale. Frequentano ragazze semplici, affettuose e disponibili. In molti casi si confessa abuso d’alcol, cocaina e altre droghe. Emergono l’intelligenza di Marco Prato e la frustrazione di Manuel Foffo, quest’ultimo emarginato dal padre e dal fratello, nonché calciatore mancato. Inevitabilmente si percepisce anche una dinamica manipolatoria. Ogni fatto viene acquisito, messo in ordine e catalogato, nel tentativo di contrastare un evidente degrado che Lagioia però rappresenta benissimo attraverso le similitudini con il mondo animale: la sopraffazione come modalità di vita e di socializzazione. Qualcosa di simile era avvenuto con La Ferocia, ora però a entrare in ballo non sono lucciole, grilli e falene ma topi feriti, gabbiani voraci e cumuli di immondizia. Siamo a Roma, rappresentata nel suo peggior momento, città devastata ma conservante nelle viscere immense energie e capace di esercitare enormi attrattive su chiunque, autore compreso.

Nell’ambito di questa cornice narrativa a qualcuno è venuto in mente di scomodare Pier Paolo Pasolini e Walter Siti. Ma i riferimenti sono altri. Impossibile non ricordare Truman Capote e il suo A sangue freddo. Lo scrittore statunitense impiegò sei anni a raccogliere testimonianze intorno all’omicidio di una famiglia di agricoltori americani. Nicola Lagioia ne ha impiegati solo tre, ma l’impegno e la fatica sono stati analoghi.

Riguardo al tema centrale del libro, lontano dalle categorie del giallo e del noir, non è sbagliato il riferimento a Delitto e Castigo di Dostoevskij. Disorienta l’osservatore narrante, e in seguito il lettore, l’enorme difficoltà che hanno i protagonisti nell’attribuirsi una responsabilità, una “colpa”. Su questo elemento si regge la ricostruzione della vicenda. La scrittura si fa piana, asciutta ma ancora ricca di grande forza affabulante. Affiora il ricordo di opere del passato, soprattutto di Carlo Levi e Primo Levi, là dove la narrazione si denuda delle necessità letterarie aprendo una finestra sulla terribile realtà: cosa c’è da aggiungere al dramma di un campo di sterminio?

Tra ricordi di gioventù e personali, una riflessione interroga direttamente il lettore: “tutti temiamo di vestire i panni della vittima (…) ma quale ostacolo emotivo dobbiamo superare per immaginare di poter essere noi, un giorno, a vestire i panni del carnefice?” Tutti siamo spaventati immaginando d’essere colpiti da un’auto in piena corsa, ma quanti di noi temono di trovarsi al volante, e di travolgere un passante?

Natura umana, arbitrio più o meno libero, colpa e responsabilità, temi capitali e inesorabili. In definitiva: “Bisognerebbe amare la vittima senza bisogno di sapere nulla di lei. Bisognerebbe sapere molto del carnefice per capire che la distanza che ci separa da lui è minore di quanto crediamo”.