Parlare di pratiche umane in relazione alla storia naturale ha un significato inevitabilmente diverso nel mezzo di una pandemia, è un po’ come caricarsi sulle spalle la nostra parabola animale senza ridurre “né della storia alla natura, né della natura alla storia”. Il saggio di Marco Mazzeo, letto all’inizio del lockdown, racconta un capitalismo contemporaneo dell’agire comunicativo – linguistico, cognitivo, loquace – oggi modellato sulle prerogative e gli invarianti della specie che tende a sfruttare ma non per questo più “naturale”.
Come ha osservato Paolo Virno “I bersagli maggiori sono un naturalismo pronto a sogghignare, se solo sente parlare dei rapporti di produzione (..) ma anche il suo complice camuffato da rivale, cioè uno storicismo soave, disgustato da ogni menzione dei requisiti innati dell’Homo sapiens.”
L’autore, sulle tracce di Stephen Jay Gould, pone alla base della sua riflessione la neotenia della specie umana, la cronica immaturità come tratto evolutivo dell’Homo Sapiens Sapiens. Per Gould la predisposizione all’apprendimento e la fuga dalla specializzazione restano i nostri unici superpoteri e caratterizzano la nostra ontogenesi su un piano antitetico all’ipotesi innatista di Noam Chomsky e all’ “istinto del linguaggio” professato da Steven Pinker.
Per Mazzeo il linguaggio esula da qualsiasi determinazione del codice biologico, l’umano è animale storico in quanto animale del possibile e viceversa: “La neotenia è il sistema biologico, cioè non storico, che richiede soluzioni storiche al problema della sopravvivenza. Offre all’organismo un’apertura multi-uso alla contingenza delle modalità produttive (raccolta, pesca, agricoltura, industria); lo prova dei vantaggi di un adattamento unilaterale”.
Nel descrivere la locuzione “storia naturale”, il pensiero neoliberale resta sostanzialmente diffidente verso il termine “storia”: in seno alla psicologia evolutiva (Michael Tomasello), per esempio, la comparsa di una morale cooperativa umana diventa in pratica sovrapponibile con la nozione di mercato. Ma, contrariamente alla sua auto-narrazione, il capitalismo linguistico non si basa sulla creatività, ma sulla la sospensione dello stimolo, all’origine del linguaggio, che è sempre reversibile e non smette di oscillare verso l’indistinto e lo stato pre-linguistico. Del resto, la lingua non è perfetta in nessun individuo, ma esiste perfettamente solo nella nozione di massa (Ferdinand Saussure): i nomi di massa cristallizzano un’immagine verbale, non sono “né materializzazione di suoni né spiritualizzazione del pensiero. Detto in altri termini, la parola libera dallo stimolo ma non si libera mai completamente dello stimolo.
La neotenia, il modello della produttività infantile, sono oggi saldamente al centro dei rapporti produttivi; come gli zombi di George Romero, in grado di riappropriarsi della parola solo al termine del ciclo in Land of the Dead (2005) gli automatismi del linguaggio non sono definiti una volta per tutte, ma possono evolvere. Nella logica dello Stato-Leviatano, d’altro canto, l’apprendimento ritardato, è a stento tollerato, e va regolato: come ne L’invasione degli ultracorpi (il film di Don Siegel del 1956) il linguaggio “definitivo”, è segnaletico, senza infanzia, e mira a stroncare sul nascere la vita verbale attraverso la sfera pubblica. Qui occorre distinguere tra l’aggressività innovativa alla base della nostra resistenza pratica che “non è uno dei rumori della macchina umana ma la benzina” (Donald Winnikott), e l’aggressività disruptive di un modello economico-sociale che da perfetto “parassita storico” (Joseph Schumpeter) non riconosce limiti.
Nel testo, che rivendica l’impurità come cifra filosofica, non mancano le incursioni nell’immaginario pop e nel pulp cinematografico dacché “il fantastico regna in un mondo che stenta a concepire la propria trasformazione e costituisce una riserva di esperimenti mentali”.