Daniele Petruccioli. Nell’emotività dell’abitare

Daniele Petruccioli, La casa delle madri, Terrarossa Edizioni, pp. 300, euro 15,20 stampa, euro 8,99 epub

Javier Cercas nel suo saggio Il punto cieco ci parla di un certo tipo di romanzo, il cui contenuto è una domanda, spesso di sapore morale, che “riguarda la natura e il comportamento degli uomini, l’infinita complessità dell’umano” e la cui risposta “è la ricerca stessa di una risposta, la domanda stessa, il libro stesso”.

Daniele Petruccioli, noto all’editoria come traduttore e saggista, esordisce nel romanzo con La casa delle madri, già selezionato dalla giuria del Premio Campiello e segnalato al Premio Strega 2021, regalandoci un punto cieco – un interrogativo complesso – che è insieme multiforme e accuratissimo: i rapporti familiari e il dipanarsi dei destini in grembo agli ambienti.

Questo precipuo punto di interesse si arricchisce poi, nel corso della narrazione, di una riflessione intensa su numerosi temi, quali gemellarità, handicap, memoria e malattia mentale, norma piccolo-borghese e sovversione, attaccamento e ostilità, e, in generale, su quell’insieme di tenere criticità e crude avversioni che nascono all’interno delle pareti di una casa. E sono proprio le pareti, gli arredi, gli ambienti nel senso architettonico del termine che, con il loro deteriorarsi e mutare, con i passaggi di proprietà e i rifacimenti, accumulano il vissuto di chi abita in un insieme di realtà palpabili o trascendenti, finanche soprannaturali. Certamente per questo gli ambiti e i territori del vivere dirigono nel libro l’orchestra delle emozioni, e strutturano i tempi e i toni del racconto.

In seguito alla morte della madre e, a distanza di un anno, del padre, Sarabanda si trasferisce con il marito Speedy e i due figli gemelli Elia e Ernesto nella grande e lussuosa casa di famiglia. La felicità non riesce però ad abitare completamente quelle mura, perché Ernesto ha un grave difetto organico dovuto alla dinamica del parto, e le differenze incolmabili nella competenza motoria tra i due gemelli – che si rifletteranno in altrettante differenze nel modo di crescere, affrontare le sfide dell’infanzia, rapportarsi l’uno all’altro e al mondo intero – li renderanno tra loro sempre più ostili e distanti. A questo si aggiungerà la separazione dei genitori e infine la malattia di Sarabanda, venuta come una scure a interrompere il rapporto simbiotico di accudimento tra la madre e il figlio fisicamente svantaggiato; il quale da un atteggiamento di ininterrotta richiesta di attenzione passerà a una dolente e rabbiosa irritazione, che evolverà in ostentata assenza.

Questa dinamica di Ernesto (bisogno-ripudio) si affermerà anche verso il “gemello sano”, in risposta a un suo costante, reiterato, atteggiamento di commiato: Elia vuole avere una stanza sua, amici e passatempi suoi, ignorare l’imperativo ricorrente del “bada a tuo fratello”: una istanza genitoriale che, fin da piccolissimo, lo ha mortificato e portato a progressiva asfissia emotiva, talvolta trattenuta dal raziocinio, talvolta deflagrata in aperta crudeltà verso la propria metà speculare e fragile.

Petruccioli ha per noi volute di prosa generosa, in cui indaga la centralità degli spazi e dei corpi: ci racconta di una nonna che, affetta da demenza, recupera la fisicità dell’affetto, del disagio emotivo di Ernesto che diviene un continuo incespicare e sbattere; ci parla di mani antiche, nodose e buone che preparano, di chirurgie e chemioterapie, di emisferi cerebrali, di ematomi, di asimmetrie negli arti; ma ci dice anche del contrario, di come la corporeità sia tramite e alfabeto di qualcosa di più serio e sottile; il sesso ad esempio, che, anche se giocoso, può essere un attimo di tregua dalla crudeltà del mondo: “…tra loro tre come mondo e loro tre come singoli, separati, un momento di fiducia […], di stupore, di mancanza di difese perché protetti da qualcuno: un abbandono. Erano stati fragili e genitori di se stessi, quella notte, singolarmente e insieme, da soli e come trio: in nessun istante avevano avuto mai paura di ferirsi”.

Nella Casa delle madri la dimora evolve negli anni con i suoi divisori sempre più asfittici come metafora delle difficoltà relazionali, delle separazioni emotive, dell’incomunicabilità in famiglia: “Le stanze si restringeranno e moltiplicheranno, saranno più asimmetriche, come due secoli e mezzo fa. Alcuni morti si adatteranno e a loro se ne aggiungeranno altri. Poi tutto verrà buttato giù di nuovo per ripristinare il ripristino e modificare il modificato, tra pianti, conflitti, vendette e nostalgie, fino all’ultima grande quiete delle macerie, che forse un giorno assurgeranno allo status di rovine”.

Il dimorare – sembra voler dire l’autore – lascia tracce di vita, e le stanze trattengono anime e memorie nonostante i tentativi di ristrutturare, ridare forma e colore: la casa porta le stimmate incancellabili (minuziosi sono nel romanzo gli elenchi di restauri, consolidamenti, nuove destinazioni d’uso, bonifiche, rivestimenti) delle vicende umane più intime: il piano di sopra della “casa delle onde” in rovina è l’emanazione del dissesto economico di Pinuccio; il corridoio con la sua alternanza luce-buio è per Elia la soglia per superare le sue paure, per Ernesto la spina non estirpabile di un disagio psico-fisico invalidante.

La stratificazione dei cambiamenti, dei numerosi ripristini è usato come correlativo oggettivo dello scorrere del tempo sulle umane vicissitudini: oggetti e ambienti si deteriorano e mutano ma ci sopravvivono, decretando un’apparente vittoria del materiale sullo spirituale; tuttavia ciò che rimane di tangibile non è inanimato, ma intriso di entità sottili: scelte sofferte, vissuti complessi, impalpabili presenze. Nella Casa delle madri la ricerca della verità psichica, ammesso che una verità esista, è inesauribile, ma Petruccioli non abdica, e approfondisce strutturando il pensiero in modo ciclico, ricorrente: per ogni suo personaggio, l’autore indaga e riporta più volte, in una spirale di allontanamenti e ritorni.

Mirabile la metafora concettuale di gemellarità disseminata nella compagine narrativa di tutto il romanzo come dualismo speculare: la tensione tra il perbenismo borghese e il desiderio di novità, le relazioni familiari tra contrasti sopiti e dipendenze emotive, lo struggimento dell’abbandono e l’incomunicabilità; la potenza fisica e quella intellettuale, Speedy e Sarabanda, Ilide e Nina, Elia e Ernesto. Come i gemelli, così anche tutto il resto è doppio, è antitesi e dialettica.

La prosa di Petruccioli è complessa, fortemente ipotattica: gli incisi gemmano gli uni dentro gli altri e la parentesi diviene un mondo a sé – lama e carezza – in cui immagini vengono richiamate dal passato o proiettate nel futuro con connotazioni forti dal punto di vista viscerale; vi sono parole chiave la cui ripetizione ugualmente richiama e scuote, con un approfondimento progressivo del processo di penetrazione psicologica che richiama il magnifico Javier Marías.

I dialoghi sono assenti, come a definirne l’aleatorietà quotidiana del parlare, lo scarso significato delle parole nel definire i rapporti, il loro ruolo di superficie che cela meccanismi molto più complessi. Dunque se il dialogo non spiega, non scava, non risolve, il narratore chiede un grande atto di fiducia al lettore: seguirlo nel suo disvelamento del reale, nella sua analisi sentita, meticolosa. Una scelta stilistica e speculativa in piena controtendenza rispetto ai canoni di buona scrittura ora in voga – show don’t tell, dice qualcuno – rammentando ancora una volta come la regola produca matrici e stampi, mentre l’arte in ogni sua forma dimori nell’autenticità dell’infrazione.

Il narratore, forte di una lunga esperienza di traduttore – e dunque di trasduttore di emozioni, nonché di scrittore – nel suo dipinto non ha timore di uscire dai margini: la narrazione prescinde da un’intelaiatura consequenziale precisa, i tempi sono quelli ricorrenti dell’emotività, e ogni avvenimento o modo d’essere viene sviscerato più dall’interno che dall’esterno: con un costante atteggiamento di indagine psicologica attenta, le vicende sono abbozzate e poi richiamate – mediante flashback e flashforward – a volte più accuratamente, a volte solo accennate, per poi essere rievocate altrove con sguardo più lieve, più accorato, più disinvolto e rapido o più pedante, da prospettive frontali o oblique, secondo il punto di vista dell’uno o dell’altro personaggio.

C’è una resistenza iniziale, nel leggere questo libro. Tra le sue pagine la parola si dispiega lungamente, richiama particolari che paiono insignificanti, abbozza interpretazioni che possono sembrare giudizi. Ma d’un tratto ogni cosa si fa indispensabile: il particolare che in prima battuta risultava accessorio, l’espressione vagamente pedagogica – la hybris, le rette parallele – alla seconda traiettoria concentrica divengono familiari, alla terza necessarie, fondanti.

Petruccioli con questa sua opera è stato accostato a Virginia Woolf, e la sua affezione per l’antecedente letterario di Mrs. Dalloway è d’altronde dichiarata apertamente in un passaggio del testo, ma non solo questo: l’autore ha un atteggiamento di indagine introspettiva ondulare e ricorrente che richiama Proust, scava grandezze e miserie come Dostoevskij amava fare, descrive con minuziosità flaubertiana, è insomma vicino al grande romanzo novecentesco.

Nel teatro tenero e sanguinario della famiglia, La casa delle madri è un gioco di lenti intelligente e sensibile, un punto cieco lasciato al lettore come dono: un fluire di eventi in una cornice architettonica apparentemente inerte, che è invece intrisa di materia e spirito, e diviene scrigno e custode silenziosa di presenze e memorie.