Nella bolla americana

Joyce Carol Oates, Ho fatto la spia, tr. Carlo Prosperi, La nave di Teseo, pp. 496, euro 20,00 stampa, euro 9,99 epub

My Life as a Rat, il titolo originale del romanzo di Joyce Carol Oates, la mia vita da topo, il topaccio con cui viene appellata la ragazzina Violet Rue, “Vi’let”, nei meandri di una folta famiglia abitante sulle sponde oleose e metalliche del fiume Niagara, nei pressi delle poderose cascate. Vivere a dodici anni in Black Rock Street, nello stato di New York, in mezzo a molti fratelli e sorelle, può essere micidiale se il padre, di origine irlandese, zittisce tutti con uno sguardo e usa maniere forti (maschi da una parte, femmine dall’altra), e se la madre si vergogna delle sue origini proletarie. In più non sa coltivare i fiori davanti alla casa dal telaio in legno, muffe e marciume e coleotteri hanno sempre la meglio. La comunità afroamericana di South Dakota ha spesso a che fare con scontri tra ragazzi bianchi e ragazzi dalla pelle più scura. Battibecchi, animosità fra studenti di una scuola in cui non ci sono coppie miste, e nessuno si mescola. In famiglia l’ammirazione va soltanto agli atleti di colore, spettacolari e famosi in tutto il mondo. Niente di più, come in molte parti degli Stati Uniti. Il padre di Violet Rue, Jerome Kerrigan, reduce del Vietnam, odia Richard Nixon e Lyndon Johnson e i politici “figli di puttana”, sdegna i libri e ogni intermediario, ogni progetto casalingo è compiuto aborrendo qualsiasi raffazzonatura. Lo infastidiscono le case dei vicini e i loro prati spelacchiati. Capito a quale tipo di yankee (se questo è il termine più adatto) guarda la Oates nel suo romanzo? La scrittrice, giunta a un’età in cui è difficile rendersi conto di quante opere siano uscite dalla propria ferrea volontà, guida il lettore attraverso capitoli brevi o estesi, rapidi o più meditativi, attraverso la storia e i fatti visti e vissuti in prima persona dalla piccola Vi’let. Un discorso per niente mite, ma diretto e aspro, in cui la tensione estetica e morale è data soprattutto da periodi brevi, secchi quanto basta a delimitare lo strazio implosivo della ragazzina che cresce, dopo l’avvenimento centrale e catastrofico, in mezzo a passioni cupe, ostinate, e pressoché perverse.

La superbolla americana esplorata in centinaia di libri è ancora qui, in un’idea di democrazia lontana anni luce da quella greco-mediterranea, irta di invenzioni e violenze, di incanti naturali e architettonici, di Coste contrapposte, Hollywood e Disneyland, Coney Island e Cape Canaveral, country music, Lost e Beat Generation, Black Mountain Poetry, boxe e drive-in, Area 51 e CIA, feroci assassinii e Flower Power, Ku Klux Klan e Smith & Wesson, tra fascino e ripugnanza e oscene artificiosità. Ma ci si preoccupa più di vitamine e disinfettanti che di diritti delle comunità definite “minoritarie” (tranne quando si deve eleggere l’inquilino della Casa Bianca), più dei cubetti di ghiaccio fuori dai motel che della violenza stradale, fra shorts sgambatissimi e botte da orbi dinamiche ma più che altro sanguinarie. Oates si dirige lungo le routes e sosta con fari accesi nella cronaca, nella Storia collettiva e, tra l’altro, personale. La famiglia americana, luogo di responsabilità banalissime e irresponsabilità mal rilegate, quasi sempre immerse nelle ombrose privacy di immancabili porte sul retro e polverose cantine costruite sul regno dell’onnipresente It. Se Stephen King è la faccia psichedelica deturpata (di horror) delle generazioni nate nel secondo dopoguerra, Oates è l’ala immensa del rapace che scruta dall’alta quota per poi abbassarsi fulmineamente e colpire. In Ho fatto la spia l’inquadratura è per Kerrigan padre, per i figli maschi violenti e capaci di centrare (e uccidere) con mazza da baseball il nero di turno per poi arrendersi all’evidenza della ragazzina che ha visto e che nel pieno di una febbre da spavento denuncia, fa arrestare. Violet Rue si trasforma per l’intera comunità, e per l’intera famiglia, nel topaccio spione.

La protezione di Violet Rue è una condanna, l’allontanamento da South Niagara la proietta nelle regioni psichiche di adulti dove prosperano mostri insidiosi e pressoché mortali. Nessuno è immune, sotto la lente indagatrice e scoperchiante di Oates: reconditi progetti d’inganno e stupro, avvelenamenti ignobili che nutrono il baraccone di una finta istruzione scolastica. Il professore che narcotizza le sue allieve, Violet Rue compresa, per poi insanguinarne i corpi adolescenziali, la zia ospitante e succube di un marito anch’egli preda di azioni lascive, e infine l’uomo che alcuni anni dopo elargisce alla ragazza denaro e regali in cambio di dignitosi lavori trasformati presto in ben altro. L’America, nel suo insieme consorziale, fa di tutto per indebolire la protagonista, fino all’epilogo narrato in poche meravigliose pagine da una Oates in stato di grazia. Se c’è qualcuno là fuori, si tratta di personaggi ancora più pericolosi di quelli raccontati da King che, se non altro, mostrano un aspetto già sufficientemente alieno. Ma chi appartiene alle famiglie e alle istituzioni americane possiede volti persuasivi e esistenze che ci mettono un po’ a rivelare l’estremità sfasata e stonata.

In tutti i romanzi e racconti (oltre a reportage, fiction, poesie) di Oates l’iper-realtà ha la peggio con la realtà fotografata da scatti in sequenza rapida, così come il bianco e nero riesce meglio del colore a sceneggiarci la visione del mondo. Non si tratta soltanto di un successo “tecnico” per l’autrice, ma del dispiegamento letterario di misteri e riservatezze fin lì dovuti a paure reali e confini psichici: migliaia di combinazioni rinnovate, in ogni decennio, con succulenta novità. Oates, come pochi altri, ha trapassato il tremendo Novecento traghettandolo nelle ombrosità che già trascinano gli anni Duemila, fardello non da poco ereditato dal peggio del secolo scorso. Avendo preso le misure alla disumanità americana (crescente a profusione proprio in queste settimane), per moltissimo tempo dovremo aspettarci le prossime terribili malvagità mondiali, forse meno seducenti ma formate di specifico ingegno digitale. E sostenute da quelle vite primordiali, a noi invisibili, che hanno assaltato quanto stavamo sfinendo per conto nostro.