Ecco un esordio stupefacente. Nazanine Hozar, 41 anni, nata a Tehran, emigrata all’età di sette anni con la famiglia in Canada a seguito dell’instaurarsi del potere teocratico degli Ayatollah, inizia a scrivere questo romanzo mentre frequenta il corso di scrittura creativa all’Università della British Columbia, lo continua quando già insegna, in buona parte sulla tastiera del cellulare mentre si reca al lavoro, e poi ancora durante un periodo di ricovero ospedaliero. E fa subito centro: una scrittura sobria, misurata, che mantiene un magnifico understatement mentre racconta una storia potenzialmente carica di conflitti, pathos e sentimenti forti. Dopo la prima pubblicazione in Canada il libro è già arrivato negli USA, e poi diverse case editrici di numerosi paesi europei si contendono i diritti di traduzione.
La trama. Nel 1953 una donna di Tehran, che non può permettersi di mantenere la figlia concepita fuori dal vincolo matrimoniale, abbandona la neonata in strada, di notte. I disperati richiami della bambina vengono uditi da Bahruz, autista di automezzi militari, che la porta a casa dalla moglie, di diversi anni più anziana di lui: la donna non accetterà mai di considerarla come propria figlia. Behruz darà alla neonata un nome ispirato dalla musica: “Aria”, perché l’ha salvata grazie alla voce, provocando qualche qui pro quo perché in persiano Arya è nome maschile – anzi, ha la medesima origine semantica di “ariano” e di “Iran”.
Questo è solo l’inizio di una lunga storia che racconta, oltre alla vita di Aria, diverse tappe nella storia dell’Iran nel secolo scorso, dal tentativo di modernizzazione del ministro Mossadeq all’ingerenza straniera, inglese e americana, dall’autocrazia dello Shah che si regge sulla feroce repressione della Savak, la polizia politica, alla rivoluzione di popolo che presto si trasforma in involuzione teocratica sotto la guida dell’ayatollah Khomeini.
Al contrario di una serie di prodotti standardizzati che infestano oggi l’editoria, impostati su un sentimento di pietà opportunamente sterilizzato dalla distanza geografica e culturale, Aria non è né saga familiare plurigenerazionale né sagra del biasimo per le ripugnanti ideologie dell’integralismo religioso. Siamo invece di fronte a “un’odissea femminista”, come ha scritto John Irving – mentre Margaret Atwood ha parlato di “un Dottor Živago iraniano”, la cui particolarità consiste nel fatto che quasi tutti i protagonisti appartengono a una qualche minoranza: non solo religiosa (ebrei, zoroastriani, cristiani armeni), ma anche politica (comunisti) e sessuale (omosessuali).
Uno dei temi del romanzo è infatti la dialettica tra identità e omologazione, che può partire dal nome, come la famiglia che sceglie nomi persiani per integrarsi, o al contrario il giovane khomeinista che al momento di entrare nell’esercito rivoluzionario ripudia il proprio nome persiano per sceglierne uno arabo. Anche le etichette sociali sono un’identità più che evidente: si pensi alla continua dialettica tra le due Tehran, il Nord con la sua borghesia abbiente, le grandi case tradizionali, i viali alberati e i negozi, contro il Sud della capitale, povero, sporco e sovraffollato, dove il gran bazaar diventa il nucleo da cui s’irradia l’opposizione religiosa integralista.
Anche Aria è alla ricerca continua di un’identità: per esempio quando pedina fino a una sinagoga la signora che la madre adottiva la costringe a frequentare, per ragioni che saranno note solo alla fine anche se si intuiscono – oppure pensiamo al più difficile tra tutti i tentativi di etichetta: cosa rappresenta lo Shah? L’unica forza che può modernizzare il paese e contenere la rabbia crescente dell’opposizione religiosa, oppure un tiranno che trova legittimazione nell’attività repressiva della polizia segreta e nell’interessato appoggio straniero?
Non è un caso che ognuna delle quattro parti in cui il libro è diviso prenda il nome da una madre: prima con riferimento alla vita di Aria, poi tocca a Aria stessa nel momento in cui è a sua volta protagonista di una maternità, a fine anni Settanta, in tragica concomitanza con il periodo più turbolento della lotta per il potere a Tehran.
Hozar, che non ha mai fatto ritorno nel suo paese dopo l’emigrazione (e probabilmente le sarebbe impedito, dopo la pubblicazione di questo libro), è riuscita a rendere viva e vivida la città di Tehran, riconoscibile anche solo per chi l’ha visitata da turista. I suoi personaggi non possiedono quel fascino patetico di molti romanzi contemporanei ambientati nel medio oriente, o nell’Asia centrale, che hanno l’effetto di spingere il lettore occidentale a riflettere sulla fortuna di essere nati in una democrazia: Hozar rifugge il facile feticismo del personaggio, così come i trucchi narrativi che suscitano l’affezione emotiva del lettore. Anzi, spesso i suoi protagonisti hanno reazioni imprevedibili, imperscrutabili, spingono la trama in una direzione inaspettata: anche se nel turbine degli avvenimenti finali (nell’ultima parte) la tempesta della rivoluzione porta le loro esistenze a collidere di nuovo le une con le altre, non si tratta di una di quelle storie accuratamente preparate intorno a un’architettura del destino.
In sostanza, è possibile immedesimarsi in Aria e patire per la sua sventura, anche se non riusciamo mai a entrare nella sua mente; risulta ostico comprendere le sue scelte spesso destate da testardaggine, o da orgoglio. Alla prova dei fatti non è unicamente un personaggio-fantoccio, utile solo a raccontare lo scenario e i cambiamenti epocali dell’Iran a fine millennio, ma una donna reale che ha riflessi e reazioni suggeriti da una cultura differente dalla nostra.