“Give me a storm!” – Dammi una tempesta!, imploravano i poeti inglesi nel Seicento, invocando lo scatenarsi delle passioni; al contrario, sopraffatti dalla potenza di certe tempeste, i greci vagheggiavano la bonaccia e pregavano affinché la furia dei venti amorosi fosse placata. Ne scrive in un denso studio Giorgio Ieranò, docente di Letteratura greca, intitolato Il mare d’amore. Eros, tempeste e naufragi nella Grecia antica, recentemente pubblicato da Laterza, un saggio vivace il cui autore riesce, attraverso la pregnanza delle argomentazioni addotte, a riscattare dalla banalità un topos letterario tradizionalmente considerato tanto convenzionale da risultare spesso stucchevole.
Nella prima parte del volume, dedicata al legame tra Afrodite e l’acqua, Ieranò ne sviscera sacralità e insidie, racconta la nascita della dea di Cipro e arcane storie di marinai, miracoli e prostitute. E se la letteratura ellenistica offre molteplici esempi della ricorrenza di questo tema, lo studioso ne sottolinea l’ascendenza mitologica: è infatti nelle vicende arcaiche cantate dall’epica che il rapporto tra desiderio amoroso e distesa marina ha origine. Sospinti dalla corrente della passione, Paride ed Elena, Giasone e Medea, Teseo e Arianna – gli eroici amanti della tradizione – solcano le onde del mito per andare incontro al loro istinto d’amore, sprezzanti delle convenzioni sociali e dei legami matrimoniali o familiari. Questo loro folle navigare determinerà conseguenze fatali per sé e per chi sta loro intorno.
Travolti dai flutti sono anche i personaggi menzionati nella seconda parte del libro, tuffatori che nuotano in un eros burrascoso: dai naufragi di Odisseo, leniti dalle balsamiche cure delle sue donne, alla tragica vicenda di Ero e Leandro, rievocata nell’Ottocento dall’impresa di Byron, il quale volle dimostrare la plausibilità dell’avventura marina del ragazzo del mito, il quale attraversava a nuoto lo stretto dei Dardanelli per raggiungere ogni notte l’amata e farla sua; una sera d’inverno, il vento spense la torcia che Ero teneva accesa e Leandro, smarrito l’orientamento, morì annegato. La fortuna del racconto virgiliano e, ancor più, di quello ovidiano arriva, per mezzo del teatro di Marlowe, a contaminare addirittura il cinema americano contemporaneo.
Il saggio di Ieranò non manca di stupire il lettore con continui riferimenti alla modernità, con incursioni nelle arti e nelle discipline più varie, a dimostrazione della vitalità del tema in una pluralità di linguaggi. Se il mare ribolle purpureo nelle parole di Omero, la Clitemnestra eschilea sontuosamente proclama: “Esiste il mare, chi potrà mai asciugarlo? E nutre continuamente il succo inesausto, che sempre si rinnova, di porpora preziosa come argento”. Ma è nei versi novecenteschi di Ghiorgos Seferis che si compie il lascito di un tale studio: “Qui terminano le opere del mare, le opere dell’amore. / Quanti vivranno un giorno qui dove noi terminiamo, / se mai accadrà che nella loro memoria il sangue nereggi e trabocchi, / non si dimentichino di noi, anime senza vigore fra i fiori di asfodelo, / e volgano verso l’Erebo il capo delle vittime sacrificali. / E noi, che non abbiamo avuto nulla, insegneremo loro la quiete”.
Agli amanti infelici giunga dunque l’invocata quiete, la bonaccia che talvolta soffia nella direzione della poesia.