Ogni 31 marzo, alla sera, le finestre di numerose case milanesi si illuminano con una candela in ricordo di Pippa Bacca, l’artista violentata e uccisa in Turchia nel 2008 dopo essere partita in autostop vestita in abito da sposa per raggiungere Gerusalemme attraverso undici paesi afflitti da guerre.
A distanza di dieci anni dai fatti, Nathalie Léger ha scritto un’opera preziosa (La Nuova Frontiera aveva già portato in Italia il suo Suite per Barbara Loden sempre tradotto da Tiziana Lo Porto), a metà strada tra documentario, saggio e mémoir, in cui la vicenda di Pippa Bacca si intreccia al complicato rapporto tra l’autrice e sua madre. L’abito bianco percorre – a perdifiato, su e giù nel tempo e nello spazio – la strada della vita e quella dell’arte, abbattendo con raffinato equilibrismo le barriere che sembrano dividere le due sfere e indagando il senso del residuo immaginario che permane nell’inevitabile intersezione tra le due.
“Perché pensi di scrivere se non per rendere giustizia?”, le chiede la madre, e se lo domanda Nathalie Léger lungo il filo – spesso spezzato, dolorosamente aggrovigliato – che lega l’intero libro, ma nel ripercorrere la vicenda di Pippa Bacca accostandola al proprio vissuto personale non c’è solo un’idea di redenzione (“una forma perversa di vendetta”), c’è molto altro, c’è molto di più: sono due storie individuali all’apparenza diversissime che si abbracciano, dissolvendosi l’una nell’altra attraverso le tinte fosche e i contorni sfumati di uno stile ricercato e toccante, fino a diventare la narrazione di un’unica storia collettiva. Una storia che parla di ogni donna che per esprimersi abbia dovuto lottare contro una società rigida e conformista; di ogni artista che si sia messo in gioco nel profondo per fondare una nuova relazione con l’Altro; di ogni essere umano pronto a mettere in discussione il mondo che ha ereditato nella tenace speranza di inventarne uno in cui le parole “fiducia” e “pace” possano smettere di suonare come ingenuità infantili, ma tornino al loro significato originario, pregno di responsabilità condivise.
Chi era veramente Giuseppina/Pippa/Eva (altro nome d’arte con cui interpretava un personaggio che, al contrario della virginale Pippa in abito bianco, sfoggiava mises e atteggiamenti da vamp)? Quale narrazione del mondo voleva suggerire la sua performance? E in che modo oggi – che già ne conosciamo il finale – possiamo interpretarla? Quella di Nathalie Léger, scrittrice e curatrice artistica, non è una tesi, ma una ricerca. E per cercare, la prima cosa che fa è mettersi in ascolto: recupera materiali, informazioni, lascia che la vita e l’opera di Pippa Bacca emergano senza i (pre)giudizi che alla luce della sua tragica fine hanno troppo spesso condizionato la lettura delle sue intenzioni – più volte, in effetti, l’artista è stata tacciata di ingenuità per il suo voler abbracciare il mondo senza paura.
Léger, nel suo studio al contempo intimo e oggettivo, rintraccia nella formazione di Pippa Bacca (all’anagrafe Giuseppina Pasqualina di Marineo) l’influenza dello zio Piero Manzoni, fratello della madre Elena Manzoni, che scriveva: “È evidente che per portare alla luce zone di mito autentiche e vergini, l’artista deve avere la consapevolezza estrema di se stesso ed essere dotato di una precisione e di una logica ferrea”. Da lì, Léger prosegue: “mi piace credere che la ragazza che si lancia sulle strade d’Europa in bianco nuziale per salvare il mondo, non si identifichi del tutto con il candore del suo abito immacolato, e che la sua ingenuità non sia, anch’essa, che una finta, una logica ferrea per immergersi nella propria inquietudine”. Una logica ferrea, dunque, che rivendichi con l’ardore della vita che si unisce all’arte il diritto all’idealismo, all’allegria e alla fiducia, anche quando vengono violati e spezzati nel più truce dei modi.