Narratore ultimo mediatore

Maria Anna Mariani, Voci da Uber. Confessioni a motore. Mucchi Editore, pp. 165, euro 15,00 stampa

L’economia globale conosce oggi una fase, in rapida crescita, di disintermediazione: in questo contesto, sembra naturale tornare a chiedersi – e non si tratta soltanto di un pallido gioco di parole – se la letteratura e la critica letteraria siano ancora in grado di svolgere il loro tradizionale ruolo di mediazione. In altre parole, può un utente di una tra le tante app disponibili farne letteratura?

Questo sembra essere l’interrogativo fondamentale dal quale prende le mosse Maria Anna Mariani in Voci da Uber, secondo titolo della collana Diorami dell’editore Mucchi. Le micro-narrazioni che compongono il testo, infatti, sono tratte da una serie di conversazioni con gli autisti Uber di Chicago, città nella quale Maria Anna Mariani insegna Letteratura italiana all’università. Coerentemente, ogni micro-storia è corredata da una serie di dati che ricalcano le recensioni del servizio richieste dalla app: tragitto, durata, traffico, macchina e media delle valutazioni. Nonostante alcuni dati siano volutamente trasfigurati dall’elaborazione letteraria – si vedano, per esempio, gli aggettivi con i quali si descrive il traffico, di volta in volta “affabile”, “rancoroso”, “sovrano”, etc. – non è sempre possibile discernere l’intervento più schiettamente autoriale dal resoconto dell’utente di Uber. Ed è in questa ambiguità, forse, che risiede la risposta definitiva, notevolmente perturbante e a tratti rischiosa, all’interrogativo citato in apertura.

Il narratore stesso di Voci da Uber si trova esposto a questo rischio, come segnala in modo sintomatico la scelta, nel testo, di non ricorrere mai al discorso diretto per registrare le conversazioni che pure lo compongono. In effetti, registrare è un verbo, a propria volta, fortemente ambiguo, nel rendere conto del potenziale critico e politico della narrazione letteraria, che può essere certamente di testimonianza, ma al tempo stesso porta inevitabilmente al disciplinamento della propria “materia”, spesso “viva”. A questo proposito, come ha ricordato anche Alberto Cellotto nella sua arguta lettura del libro, pubblicata in ottobre su Lankenauta, Maria Anna Mariani sembra condividere, anche in funzione di una serie di condivisibili ragioni etico-politiche, le perplessità sul discorso diretto già presenti in un caposaldo della letteratura italiana contemporanea come Works (Einaudi, 2016) di Vitaliano Trevisan.

Allo stesso tempo, però, si tratta di una scelta che permette al narratore di mettersi al riparo dalle conseguenze indesiderate – scegliendo anche in questo caso un termine carico di diversi significati, per l’utente di Uber come di altre app – della sua attività; per fare un esempio, pur nominando esplicitamente il rischio di dar vita a una conversazione che travalica l’obbligo alla chiacchiera (parte integrante, per gli autisti, del lavoro per Uber), il narratore resta generalmente ben lontano dall’affacciarsi sull’orlo del maelstrom.

In ogni caso, l’alto grado di consapevolezza etico-politica nella costruzione dell’istanza narrante corrisponde a una resa formale altrettanto viva, dinamica e complessa, con l’instaurazione, tra l’altro, di un sapiente gioco con la sintassi, nel quale non manca una sempre gradevole attitudine alla variatio. Pur scegliendo un sottotitolo – Confessioni a motore – che rinvia a una serie di marche letterarie poi non del tutto rispettate, Mariani evita con leggerezza calviniana i paludamenti che sono ricorrenti negli autori provenienti dall’accademia – capaci talvolta di rincorrere quel grande stile contro il quale pure, nella loro attività critica e scientifica, si scagliano – e conferma quanto di buono, e gustoso, si poteva già apprezzare nel suo precedente testo, altrettanto ibrido, Dalla Corea del Sud. Tra neon e bandiere sciamaniche (Exòrma, 2017).

Nemmeno ha grandiose ambizioni, spesso risolvibili in un esercizio intellettuale sterile e perlopiù snobistico, il posizionamento che si va costruendo nel testo, capace, però, di raccontare Uber “dal di dentro”, fino alle sue (non sempre ultime, ma certamente penultime) conseguenze, e di evidenziare così un punto politico importante.

Non è nella rivolta individuale (ossia nell’imperativo categorico e aprioristico che impedirebbe di usare le app tipiche dell’economia della disintermediazione, anche, per dire, quando ci si ritrova in difficoltà economiche) che si gioca la partita, bensì nel restituire al lettore la capacità di raccontare diversamente l’immaginario, ormai consolidato, della sharing economy (mistificato, si potrebbe dire, sin dalla sua stessa definizione).

Anche perché, come si legge nelle ultime pagine del libro, il futuro prossimo venturo, le cui premesse vengono costruite già oggi, va verso un’automazione progressiva, che, per il momento, si presenta ancor più svantaggiosa e inquietante. È anche in questa prospettiva di senso che la grafica di copertina scelta da Mucchi per il libro di Mariani, si rivela splendidamente inadeguata e inattuale – con il corsivo che, stavolta, testimonia l’apertura di una possibilità filosofica preziosa, che è poi la lettura del libro, imperdibile, a corroborare.