Nadia Urbinati negli anni grazie alle tante pubblicazioni e soprattutto alla grande esperienza nell’insegnamento nei campus USA ci ha abituati a saggi di riflessione sulla politica e il mondo attraverso uno sguardo disincantato, pragmatico e forse anche un po’ asettico, ma efficace. In questo nuovo lavoro pone l’accento sulla necessità di rivedere il nostro concetto di ipocrisia nel vivere pubblico e nell’essere una società complessa per poter dare vita alla vera società democratica, quelle società che sono “monitorate da un pubblico che giudica composto dagli stessi giudicanti, che sono mitigate dai diritti, che sono abitate da allenati all’autocontrollo e all’uso del linguaggio come mezzo di espressione”.
Con una carrellata che parte da esempi quotidiani fino ad arrivare ai concetti di base di varie società (diritti e doveri, menzogna e peccato) Urbinati ci suggerisce un nuovo modo di vivere i nostri giorni: un modus operandi per la civility. Il termine, dichiara subito l’autrice, riguarda non solo il sistema sociale ma anche la persona, nella sua totalità, tanto che a pag. 11 del libro specifica che la traduzione “civiltà” per quel vocabolo sarebbe pretenzioso e che la più prossima sarebbe “urbanità”. Nel libro ci si domanda se la purezza delle nostre convinzioni viene prima della civility (cioè prima delle relazioni di società), poiché l’ipocrisia ha in sé stessa il germe del compiacimento e del riconoscimento sociale più che del rispetto per le opinioni diverse e per la pluralità vera. È illuminante in questo senso la distinzione di Hobbes tra maschera e recitazione nei ruoli di stato: preferendo il pròsopon (persona) all’hypkrités (attore) ci indica come il ricoprire un ruolo implichi l’accettazione di rappresentare un’unità di moltitudini lasciando l’ipocrisia confinata alla sola sfera personale.
Da qui il salto alla politica è breve. Ci viene mostrato come la penombra, lo svelamento di alcuni meccanismi possano essere ipocriti dal punto di vista formale ma più che accettati quando non incoraggiati per garantire un andamento solido dei governi. L’arte del compromesso diventa quindi un altro nome dell’ipocrisia. E arriva alle nostre società come “politicamente corretto”, spesso sinonimo di conformismo. “In realtà la capacità di autocontrollo nel modo di esprimere le nostre opinioni è una condizione imprescindibile nel discorso pubblico” spiega Urbinati, aggiungendo che “sociologi e storici hanno descritto e spiegato la modernità come condizione che respinge l’assolutezza delle identità collettive mentre riconosce la complessità delle appartenenze e degli aggregati sociali”.
Per arrivare però alla virtuosità di tale modus lo step successivo è considerare l’ipocrisia propedeutica a una “completa etica e pratica del rispetto”, passando da una società che pratica tolleranza a una che riconosce la diversità umana, senza alcuna riserva, comprendendone i mutamenti come individui, e ritrovando, forse, le caratteristiche che realmente dovrebbero avere le democrazie perché tutti si aspiri a “vivere in libertà, con tranquillità di spirito”. Questo saggio, d’indubbio tono divulgativo, può essere un faro per tutte quelle persone che si interrogano criticamente non solo sul proprio operato, ma anche, e forse soprattutto, per tornare a essere cittadini e non semplici utenti.