Nadia Fusini / Perché le donne vengono uccise?

Nadia Fusini, Chi ha ucciso Anna Karenina? Inchiesta sugli omicidi bianchi nei romanzi dell’Ottocento, minimum fax, pp. 107, euro 14,00 stampa, euro 8,99 epub

Nel 1974, Nadia Fusini si chiedeva, in un saggio uscito in quello che fu l’ultimo numero della rivista “Per la critica”: chi ha ucciso Anna Karenina? Il marito Aleksandrovič Karenin o l’amante Aleksej Vronskij? Chi ha determinato la scelta di Anna di gettarsi sotto a un treno? Una questione poco dibattuta dai critici, per omertà maschile, suppone l’autrice nel testo ripubblicato cinquanta anni dopo da minimum fax. La domanda è ancora valida e gli omicidi bianchi femminili nei romanzi della seconda metà dell’Ottocento restano un segno della nascita della coscienza femminista moderna, o forse più un elemento che ha determinato la formazione di quella coscienza: una letteratura – scritta da uomini – che ha influenzato l’agire delle donne nella società.

Si tratta di donne che diventano protagoniste dei romanzi a scapito della loro stessa vita, in quanto finiscono uccise o suicide: Anna Karenina, Madame Bovary, Effie Briest, le donne dei drammi di Ibsen. Muoiono perché uscite fuori dal consesso sociale. Per una donna come Anna, che sceglie di abbandonare il marito e vivere con l’amante, non c’è alcuna possibilità di riconoscimento da parte degli altri.

La questione però – questo è un punto fondamentale – non è l’amore. Queste donne non si perdono perché amano e travisano i fatti travolte dalla passione, ma perché comprendono la loro situazione senza via d’uscita, in una società che non ha spazio per figure femminili non inserite nella gerarchia patriarcale. E il loro agire, nonostante o forse proprio per la fine tragica, ha aiutato a immaginare esistenze alternative per il vivere femminile fuori dal matrimonio. Anna Karenina con la sua moralità altra, Emma Bovary e la sua insoddisfazione, contestano la cellula familiare eterosessuale borghese della seconda metà dell’Ottocento.

È curioso – e forse sarebbe interessante indagarne le cause – che siano stati scrittori maschi a scegliere la donna adultera come personaggio chiave per mostrare l’inadeguatezza, i limiti, il carattere oppressivo e ideologico del matrimonio, ovvero della realtà data per naturale e scontata. Figure femminili che mandano in frantumi l’ideale della “felicità familiare”, per usare un’espressione che è anche il titolo di uno dei racconti di Tolstoj dove il dilemma (vent’anni prima di Anna Karenina) era già tra la confort zone dell’amore familiare e la passione destabilizzante e fuori dai ruoli. Tolstoj in molti racconti e anche in Anna Karenina – se vogliamo identificarlo nel personaggio di Levin – sembra aver deciso dove stare. E lo stesso si potrebbe dire degli altri scrittori che danno forma alle donne adultere e ribelli e poi le puniscono con la morte, lacerandole sotto un treno o avvelenandole. Ma quelle creazioni femminili, con il solo fatto di vivere una vita diversa, nominando l’innominabile, hanno contribuito ad allargare lo spazio delle donne.

“Emma, Anna, hanno dato figura e corpo – embodiment, direbbe la mia amata Virginia Woolf – e dunque incarnazione, rappresentazione, a nuove forme di vita. A nuove specie di donne. A nuovi destini.” È stato uno di quei casi, forse non così rari in letteratura, dove immaginare un’altra vita ha consentito di iniziare a crearla realmente, riscrivendo il mondo e l’immaginario sentimentale ed emotivo. La punizione non è bastata; sono restati la rivolta, l’andare contro, il punto fermo: non poter tornare indietro, non potere più essere quello che si era prima.

Ci vorrà ancora un po’, dopo, perché le donne intravedano la possibilità di quello spazio esterno. Ci vorranno altre eroine tragiche, che vivranno l’avventura della propria vita fuori dal matrimonio, come Tess dei d’Umberville, pubblicato quattro anni dopo Anna Karenina e che figurerebbe bene nel pamphlet di Nadia Fusini. Thomas Hardy è stato un grandissimo critico del matrimonio e forse per primo lo ha raccontato anche dal punto di vista di un uomo (Jude the Obscure, 1895) e in modo intersezionale, correlando le questioni relazionali, sentimentali, con quelle di classe e di gerarchia sociale. Ancora Karen Blixen in un breve saggio scritto del 1923 (Il matrimonio moderno pubblicato postumo nel 1981), mostrava (probabilmente influenzata dalla situazione personale, tra l’infelicità della vita con il marito, il barone Bror von Blixen, e l’amore per Denys Finch-Hutton) quella tensione non riducibile tra il matrimonio come pratica sociale condivisa e l’amore al di fuori dei contorni ufficiali; tensione che rendeva evidente i limiti di entrambe le situazioni e della loro contrapposizione, tanto che a un certo punto Blixen scriveva: «Dopo aver tentato per qualche tempo di edificare l’amore sul matrimonio, e dopo aver dato per scontato che dove c’era un matrimonio solido e ben riuscito l’amore sarebbe venuto spontaneamente a coronarlo… abbiamo rinunciato a questo metodo di costruzione, che tradiva qualche errore di calcolo, e abbiamo messo sottosopra l’intero edificio, ponendo alle fondamenta l’amore e prevedendo che su un sentimento forte sarebbe potuto sorgere facilmente un matrimonio solido e ben riuscito». Ma la priorità dell’amore sul matrimonio è una trappola, e nessuna storia lo racconta meglio di quella di Anna Karenina (e nessun scritto ce lo spiega più chiaramente di quello di Fusini). L’adulterio non ha più valori del matrimonio, perché il ruolo (e il potere) dell’uomo è sempre lo stesso: mentre Anna viene esclusa dalla società, Vronskij non è disprezzato e non deve smettere di frequentare certi ambienti.

Anna emerge tra le altre eroine del romanzo ottocentesco per la sua lucidità. Vede le cose per quello che sono, non è obnubilata dalla passione né dal dolore di madre costretta a rinunciare al figlio; comprende pienamente la “perdita dell’identità sociale di moglie” e l’impossibilità di un futuro perché il marito non le concede il divorzio e la società la esclude. È una visione tremenda, quella che Anna interiorizza: la visione della società patriarcale che la schiaccia e che Tolstoj narra per lunghi estenuanti capitoli fino a quel mattino in stazione. Contrapposto a lei, Levin vive un percorso parallelo e potrebbe diventare, nella sua ricerca del buono e del giusto comportamento, un uomo altro che si smarca da quella società gerarchica e maschilista. Ma poi si appiattisce sull’ortodossia e sui suoi valori dominanti: diventerà un marito tradizionale, il solito aristocratico e proprietario terriero. Come nota acutamente Fusini, nel rapporto con i contadini Levin mette in atto una replica del rapporto di subordinazione tra marito e moglie. Sceglie l’inclusione sociale e il suo sguardo non rompe il mondo. Anna, al contrario, vivendo (seppure in un breve immaginario) una vita che non si può vivere, in un ruolo non ancora scritto, determina una rottura nella storia e nella società. Da sola porta il peso di migliaia di donne oppresse e infelici e getta un ponte verso diverse rappresentazioni del sé femminile al di fuori delle relazioni sentimentali.

«Perché Anna non è passata invano: è alla sua luce che il lettore ha letto un libro pieno di ansie, di inganni, di dolore e di male. E dopo l’esperienza di Anna chi legge non può tornare a credere nell’oscurantismo patriarcale su cui il romanzo nella memoria del lettore ha “fatto luce”, liberando una diversa visione dell’universo esistente». Gli scrittori maschi del secondo Ottocento hanno immaginato che per essere rivoluzionarie bisognasse essere – o apparire – in qualche modo, immorali e offensive. Uscire dal mondo e da ogni possibile futuro, dunque anche dalla vita. Non dimentichiamo l’intensità di quella alterità, di quella esclusione, mentre cerchiamo oggi di raccontare altre storie, altre eroine e la ricerca di altri amori.