Non c’è nulla di più commovente dell’immagine di Anna Andreevna Achmatova che offre un uovo a Osip Mandel’štam la notte del suo primo arresto, nel maggio del 1934, mentre gli sgherri frugano la casa alla ricerca di materiale compromettente. Da allora il compito di Nadežda, moglie del poeta perseguitato, è quello di riuscire a salvare gli scritti del marito, perché l’esistenza umana è effimera, mentre l’opera d’arte resta e vive nelle menti e nei cuori dei posteri. Inizia come un romanzo di Kafka, con un arresto apparentemente immotivato, il primo volume delle Memorie di Nadežda Mandel’štam, Speranza contro speranza, al quale seguirà la pubblicazione del secondo volume, Speranza abbandonata.
Chi tenta di sottrarsi al conformismo ideologico diviene automaticamente vittima del sistema. Per l’ordinamento giuridico vigente qualsiasi elemento può giustificare un arresto. “Come perché? È ora di capire che la gente viene presa senza un perché”, scrive Nadežda. Il principio della divisione in “nostri” e in “estranei” si radica nella società sovietica e non ammette deroghe. Per chi non si adegua, tutte le strade portano al lager. Mandel’štam, colpevole di aver concepito alcuni versi critici nei confronti di Stalin, non può sperare pietà. Il morbo della delazione infetta l’intero Paese. L’utopia dell’uomo migliore, della nuova era intesa quale necessità storica precipita la popolazione in una sorta di ipnosi collettiva. Destarsi significa morire. Immerse in una specie di letargo, le persone iniziano a evitare i contatti reciproci; l’umanità è annichilita. La dedizione di Nadežda al marito è totale. Salvare alcuni testimoni e una manciata di carte è già un miracolo. La memoria diviene scrigno di conservazione per quei frammenti che non si riescono a consegnare ai pochi sodali, persone disposte a rischiare la vita pur di sottrarre un verso all’oblio.
Condannata a un’esistenza erratica e misera, Nadežda trascina con sé le sue povere cose con caparbia ostinazione. La scrittura è necessità, un mezzo per contrastare il disgregarsi del proprio mondo. Il giorno della partenza per il confino si fa spartiacque fra un prima e un dopo, tra un futuro e un passato inconciliabili. Per questo redige le memorie, per “descrivere una svolta della coscienza, sperimentata probabilmente da moltissime persone costrette a oltrepassare quella barriera, quel limite fatale”. Il percorso verso la morte è ormai inarrestabile, la condanna ineluttabile. Tentare di opporsi appare inutile. Durante il viaggio verso il confino a Čerdyn’, il poeta per la prima volta abbraccia l’idea del suicidio che in precedenza la consorte gli aveva prospettato, in diversi momenti intollerabili della loro esistenza insieme. Lo cercherà più volte, senza successo, preda di eccessi di follia. I due volumi delle Memorie, usciti clandestinamente nell’URSS negli anni Sessanta e in seguito pubblicati in lingua inglese nel 1970 e nel 1974, sono un tentativo di ribellarsi infrangendo quel silenzio che è un vero e proprio delitto contro il genere umano. “Non è letteratura, questa”, scrive Nadežda; eppure l’opera trascende i limiti della semplice testimonianza per attingere a esiti più alti.
La figura di Mandel’štam emerge in tutta la sua fragilità e grandezza. “Mi sembra che per un poeta le allucinazioni dell’udito siano una specie di malattia professionale”, scrive l’autrice, donando sostanza simbolica alle afflizioni patologiche del consorte. La poesia risuona come una frase musicale, il primo vagito di un quartetto d’archi, che prende forma a poco a poco. Il mistero del processo compositivo viene descritto con sensibilità e acume. Contrariamente a Pasternàk, il quale ha bisogno di un tavolo per scrivere, Mandel’štam compone camminando. Dal movimento scaturisce la poesia. Nel processo compositivo “c’è qualcosa di simile al rammentare cose che non sono ancora mai state dette”. Forse i versi esistono già prima di essere composti, forse compito del poeta è trarli dallo spazio nel quale si trovano, donandogli armonia e oggettiva unità. La poesia è ossessione dalla quale ci si libera nel momento della creazione. Nelle prime letture agli amici i versi prendono vita, trovando esistenza autonoma. “Il caso ha voluto che tutti coloro che parteciparono alla prima lettura dei versi di Mandel’štam abbiano avuto un destino tragico”. La poesia si configura allora come evento imponderabile, manifestazione di un fato al quale non è possibile sottrarsi. I versi appaiono come un delitto, in quanto si oppongono al monopolio della parola e del pensiero. I persecutori commettono però un errore: non sospettano che le loro vittime possano ricordare. Il frutto del ricordo è questo libro. “Una volta ci eravamo spaventati del caos e subito tutti si erano messi a implorare un potere forte, un pugno di ferro capace di ricacciare nell’alveo del grande fiume tutti i torrenti umani in piena. Questa paura è forse il più saldo e tenace fra i nostri sentimenti, non ne siamo guariti nemmeno oggi e si trasmette ereditariamente”. Parole illuminanti e profetiche, che molto dicono riguardo il carattere di un intero popolo e sulla sua storia.
Mandel’štam non crede al regno millenario del “nuovo”, ma crede fermamente nel potere della poesia. Per questo continuava a ripetere: “Se uccidono in nome della poesia, vuol dire che le tributano l’onore e il rispetto che merita, vuol dire che la temono, e quindi la poesia è il potere”. Come afferma in un articolo scritto per la morte di Skrjabin, la scomparsa di un artista non è la sua fine, ma il suo estremo atto creativo. Pochi al pari di Mandel’štam sono stati in grado di percepire sulla propria pelle il passare del tempo, di sentirne fisicamente la qualità effimera che spinge a vivere ogni istante con enorme intensità. Avvertendo l’alito di una rapida fine, il poeta è colto da un’ansia febbrile. I versi scorrono come torrenti dalle sue labbra, un gesto di rivolta contro chi vorrebbe impedirgli di incrinare con la sua voce unica e potente il rumoroso germogliare del tempo.