Coscienza e razionalità ci caratterizzano come specie sapiens ma ai “piani alti” delle nostre facoltà intellettuali si resta per lo più inconsapevoli dell’attività che i nostri neuroni svolgono autonomamente, in ogni istante. Questo “lavoro sporco”, in tempo reale, consiste nel filtrare la realtà che ci circonda, renderla coerente con i nostri modelli, non solo spazio temporali, e “leggibile” per la nostra esperienza razionale. Consapevoli o meno, succede in continuazione: quando riconosciamo un volto in mezzo alla folla o quando, senza pensarci, cogliamo lo stato d’animo di una persona dalla sua postura e dal body language. O, ancora più basicamente, mentre stiamo guidando e colleghiamo l’immagine di un’auto che scompare e riappare dietro a un bus, che la nostra testa, automobilisticamente orientata, registrerà come la “stessa” vettura.
Senza questa attività periferica potremmo soltanto impazzire, come il narratore di Déjà Vu, il romanzo di Tom McCarthy, che prova a dominare con la pura razionalità, riducendo ai suoi comandi un esercito di comparse a libro paga, la trama della realtà che non riesce più ad afferrare emotivamente, in seguito ad un incidente che lo ha priva di qualsiasi forma di intuizione e di empatia. Nel senso comune, tuttavia, per quel tanto o quel troppo di umanesimo che si riflette nella gerarchia dei nostri valori culturali di ogni giorno, tendiamo in generale a disconoscere questa “cognizione inconscia” come una forma autentica di intelligenza. In quanto non consapevole non ci appare distintamente umana. E infatti non lo è: ci accomuna a numerose altre specie animali superiori ma o, forse, soprattutto, tende ad avvicinarci alle forme di cognizione artificiale che emergono oggi sempre più spesso dall’infrastruttura dei dispositivi tecnici e dai progressi del machine learning e delle AI. Forme rudimentali ma emergenti di cognizione, da cui sempre più spesso dipendiamo, come si scopre non appena accendiamo il computer o lo smartphone per venire immediatamente riconosciuti da decine di diversi algoritmi.
Katherine Hayles, direttrice del dipartimento di Electronic Literature presso la Duke University, è una ricercatrice visionaria ed eclettica, da sempre a suo agio nelle intersezioni tra letteratura, tecnologia e riflessione sulla condizione postumana, ma soprattutto un’autrice in grado di trasformare queste ibridazioni in ellissi e di offrire un punto di vista intellettualmente perturbante. Come nel vertiginoso My Mother was a computer (Mimesis, 2014) di qualche anno fa, ce ne fornisce nuovamente una prova con questo libro importante, da intendere, anche come retroazione di alcuni approdi metodologici della ricerca scientifica e neurologica su alcuni assunti filosofici moderni – in particolare del “nuovo materialismo” rappresentato da Elizabeth Grosz e Rosi Braidotti, che le osservazioni del libro si propongono di integrare (capitolo 3). E, in ricaduta, sull’ampliamento auspicato degli orizzonti che la letteratura già propone alla ricerca disciplinare.
Ogni confronto o identificazione tra la vita biologica e qualsiasi ipotesi “vita tecnica” o artificiale, secondo Hayles resta fuorviante, perché la seconda non potrà in ultima analisi mai essere completamente autonoma. La questione con cui dobbiamo oggi fare i conti è invece tutt’altra: “Il paragone con i sistemi biologici, a mio parere, non dovrebbe essere focalizzato sulla vita stessa ma sulla cognizione stessa. La direzione di ricerca in cui mi sono impegnata da molti anni mi conduce a una definizione che amplia il campo fino a includere sia la cognizione tecnica sia quella biologica. La cognizione è un processo che interpreta l’informazione in contesti che la connettono a un significato”.
Informazione, contesto e significato sono le parole chiave che le tesi de L’impensato intende correlare in modo più effettivo, per descrivere gli assemblaggi cognitivi tra vivente e non vivente che, uscite dal lessico deleuziano, oggi abitano le nostre vite e le nostre smart city. A partire dalla critica della teoria dell’informazione avanzata alla nascita della cibernetica Norbert Wiener e Claude Shannon, Hayles recupera concettualizzazioni e strumenti emersi pochi anni dopo dalla riflessione sulla tecnologia, in particolare del fisico Edward Fredkin (il contesto nel processo semiotico) e del sociologo francese Gilbert Simondon (l’incorporazione di un organismo in un ambiente), oltre che dal campo delle neuroscienze, una volta sgombrato il campo dalle metafore “computazionali” e dagli equivoci (la mente come computer, etc) che l’avvento stesso del digitale ha indirettamente favorito.
Da autentica geek Hayles analizza in modo tecnicamente rigoroso – senza per ora troppo soffermarsi sui temi della condotta etica – alcuni esempi di agency distribuita in rapporto ai margini di autonomia assegnati alla tecnologia che emergono dalla nostra realtà di tutti i giorni. Qualche esempio:
1 – Il “sociometro”, un algoritmo ideato al MIT Media Lab in grado di riconoscere, registrare e analizzare i parametri di social signaling fisici provenienti dai nostri processi personali comportamentali inconsci. E li interpreta prima che ce ne possiamo rendercene conto.
2 – Il ripiegamento temporale provocato dai programmi di trading automatizzato high frequency di titoli, asset e indici quotati a Wall Street, da tempo incorporati all’infrastruttura finanziaria e tali da descrivere una dimensione virtualmente inaccessibile alla tradizionale cognizione umana
3 – Lo sviluppo di droni militari a guida autonoma, pilotati da sistemi di intelligenza artificiale che possono interconnettersi con altri dispositivi mobili (a guida umana o meno), configurando un’entità stormo, etc.
A partire dai bestseller di taglio divulgativo come quelli Oliver Sacks, che hanno aperto al grande pubblico la narrazione delle neuroscienze, il saggio passa a esaminare come i dispositivi letterari possono anche emanciparsi dal soggetto del romanzo storico borghese per avvalersi di figurazioni cognitive eccentriche e dare conto, indirettamente, del “costo della coscienza” di cui siamo normalmente inconsapevoli. Oltre al già citato Déjà Vu di McCarthy, Hayles ricostruisce efficacemente Blindsight, romanzo fantascientifico “hard” del canadese Peter Watts, un autore di formazione scientifica, attento alle tesi della biologia evolutiva. Qui, sullo sfondo della competizione darwiniana tra umani e vampiri, un equipaggio spaziale formato da personalità ibride, transumane e interconnesse all’AI che manipolando i codici umani opera come il vero capitano dell’astronave – incontra delle forme di vita aliene con la “visione cieca” – una patologia che permette di localizzare gli stimoli visivi ma non il loro contenuto (e che da il titolo al romanzo). Gli alieni comunicano tra loro con movimenti micro-facciali ma, non avendo mai sviluppato una coscienza, interpretano come rumore il linguaggio umano e i suoi contenuti emotivi. Il romanzo di Watt, osserva Hyles, ipotizza che il linguaggio possa essere un ostacolo e non necessariamente una grande conquista e – come la civiltà di aracnidi che evolve al posto dei primati nel capolavoro di Adrian Tchaikovsky, I figli del tempo – “mette in questione le basi dell’eccezionalismo umano e i privilegi che tradizionalmente ci ha conferito”.
Una prospettiva che alimenta oggi i sistemi cognitivi distribuiti e complessi che abitiamo e che questo volume indaga, a partire da chiare premesse metodologiche e speculative, avanzando ipotesi che attecchiscono, senza per ora voler essere o diventare conclusive, in un mixed bag di integrazioni interdisciplinari, rilievi critici, esplorazioni letterarie e esamine tecnico-applicative.