Come nasce una mitologia? Secondo J. R. R. Tolkien la parte più difficile nella scrittura di un romanzo fantastico è la costruzione di un mondo completo e coerente in tutti i suoi dettagli, il famoso worldbuilding. N. K. Jemisin, uno dei più straordinari talenti della letteratura fantastica contemporanea, ambienta La città che siamo diventati a New York, la città dove vive da anni, nel distretto di Brooklyn, e dove ha trascorso una parte della sua infanzia, divisa tra la metropoli multietnica e la realtà provinciale e segregazionista della contea di Mobile (Alabama) negli anni ’80. Molti elementi che compongono il mondo narrativo di questo particolare urban fantasy horror filtrano quindi dalla sua esperienza diretta, altri sono stati ricercati nella realtà culturale delle minoranze native americane, latine, asiatiche, ecc. che dal Bronx a Long Island compongono il mosaico dei corpi e dei conflitti della città che non dorme mai e che è, a sua volta, molte città in una: quella di Alexandria Ocasio-Cortez e della Trump Tower, dei newyorkesi che si sentono diversi da tutti e dei turisti in fila al Metropolitan Museum.
La città che siamo diventati nasce da un precedente racconto di Jemisin, The City Born Great, How Long – contenuto nella raccolta How Long ’til Black Future Month? (Orbit, Books 2018) – con cui in pratica si apre il romanzo: un evidente atto d’amore per la Grande Mela ma anche un testo politico, un’esplicita allegoria della lotta contro il capitalismo finanziario bianco che domina la città. O meglio, il primo capitolo di un nuovo ciclo (Great Cities) che si preannuncia di respiro più agile, urgente e accessibile dei precedenti. Dopo il trionfo tributato al capolavoro Broken Earth – unico caso nella storia del Premio Hugo che ha visto vincere, per tre anni di fila, tutti e tre i capitoli di una medesima saga – la svolta era stata ironicamente anticipata nelle interviste (“adesso un po’ di divertimento”) dalla scrittrice afroamericana, attualmente al lavoro sul secondo capitolo del ciclo, dopo aver presentato quest’anno uno spin-off di Green Lantern per Dc Comics.
Le città – questa la premessa – hanno vita propria e, in definitiva, costituiscono anche una loro agency. Quando le storie dei loro abitanti si moltiplicano e cominciano a differenziarsi, le città raggiungono un livello in cui possono incarnarsi in un avatar umano, una specie di semidio metropolitano che trae linfa vitale dall’energia dei suoi stessi abitanti. Il rito si compie dall’antichità, cioè dai tempi di Uruk e di Babilonia o giù di lì (ne sapremo di più nel prossimo libro). Alcune città – Londra, San Paolo, Hong Kong, Lagos – si sono già incarnate da tempo, altre non ce l’hanno fatta, sono state abortite o uccise sul nascere dal Nemico. Ora è il turno di New York, il suo avatar – un homeless afroamericano, magro, sensuale e perennemente affamato – è venuto al mondo a fatica e giace svenuto, nascosto nel ventre della città. Ma, trattandosi di New York – cioè, al solito, un caso a parte – si ritrovano reincarnati anche tutti e cinque i distretti che la compongono e che ora dovranno imparare a collaborare per aiutarla a sopravvivere.
Manhattan (“Manny”), belloccio e ferino, è un nero arrivato il giorno stesso in città, con un passato che si intuisce violento ma che non può (o non vuole) ricordare; “Bronca” è il Bronx, nativa Lenape – il clan amerindio che abitava NYC prima dell’arrivo dei coloni olandesi – e lesbica, è l’anziana del gruppo e dirige una galleria d’arte no profit che difende con grinta e street credit vecchia scuola; Brooklyn è un’afroamericana della classe media, madre single di mezza età con figlia adolescente, è passata dal hip hop anni ’90 a un seggio in consiglio comunale. Queens, una giovane matematica arrivata dal Tamil, vive con gli zii e lavora controvoglia per uno squalo di Wall Street; Staten Island, infine, è una giovane donna con un padre poliziotto irlandese, razzista e violento come quelli dei film, che, come il suo distretto, non si sente parte di New York ma di un mondo decoroso e ordinato, via dalla pazza folla dei newyorkesi e, soprattutto, degli immigrati che, al di là del Bayonne Bridge, si agita minacciosa nei suoi incubi.
Ogni pezzo di New York ha un volto, una storia e un superpotere che si rafforza quando si trova in mezzo alla sua gente. Con Jersey, una nerd latina che aiuta “Bronca” al lavoro, moderando gli eccessi di rabbia dell’amica, formano la squadra di supereroine e di supereroi recalcitranti di un “Vendicatori uniti” in chiave intersezionale. Non siamo nella dimensione narrativa di The Fifth Season, con voci in seconda persona che si rincorrono tra diversi piani temporali, forse più dalle parti di American Gods, e Neil Gaiman è, dopotutto, uno che sa bene come si crea una mitologia popolare. La struttura di The City We Became non è complicata, la storia scorre via in terza persona e racconta di una città abitata da milioni di persone, senza bisogno di inventarla. La storia ha solo fretta di venire alla luce, per rispondere ai dilemmi etici ci sarà tempo più tardi. (Manny: “Ma tu sacrificheresti le vite dei tuoi cari per salvarne milioni in altre dimensioni?” Queens: “Certo che no!”)
E se, per dare voce a questa coralità, il romanzo rasenta a volte il bozzettismo condiscendente nel tratteggio dei personaggi secondari, soprattutto non newyorkesi (la nonna asiatica accudente e di poche parole, lo sperduto maschio trans londinese, coinquilino di Manny, o gli stessi Sao Paulo e Hong, giunti a fare da tutor alla squadra), Jemisin non si risparmia davvero nel caratterizzare le manifestazioni del Male, regalandoci uno dei migliori cattivi degli ultimi tempi. Il Nemico, sotto le mutevoli sembianze della Donna in Bianco, si specchia infatti nell’immaginario di H.P. Lovecraft, qui preso a metafora del suprematismo fobico che fa da sfondo anche al trumpismo odierno. Così dalla mischia metropolitana possono emergere anemoni infernali o la gentrificazione di interi quartieri, portali dimensionali o tirapiedi Alt-Right, filantropi razzisti o mostri del multiverso weird. La confusione è voluta perché è in questa specie di “ontologia piatta”, esteticamente indifferenziata e promiscua, che le Forze del Male, immaginarie e no, si rivelano comunque reali e, soprattutto, letali per una città che vuole continuare a vivere. La Dr.ssa White – come si presenta a un certo punto – non impersona infatti, semplicemente, la minaccia di una distruzione totale ma si rivela essa stessa l’incarnazione e il modello di una città alternativa (la più celebre, forse, nell’universo lovecraftiano), ovviamente disumana, anche fisicamente non sovrapponibile alla New York di Bronca & Co. Una città e un mondo paralleli, dove le regole della geometria prevedono spazi illimitati per nuovi Starbuck e la speculazione immobiliare di sempre.
Il finale risolve per ora in modo gordiano la trama verticale del primo capitolo (New York), rilanciando quella orizzontale della saga senza particolari cliffhanger. Il seguito, The World we made, è atteso in libreria negli Usa per fine anno ma al momento non si dispone ancora di una data certa.