Ah le chiazze nere, di questo “fumetto” (ma come, così difficile dichiararlo romanzo senza adeguarsi a più moderni vocaboli distintivi quali graphic novel, comics, e via così?), da cui la luce s’espande come riflessa da limitrofe deflagrazioni, proprio lì di fronte. Ma si sa benissimo come siano gli sguardi satellitari di questi due eroi del racconto disegnato, della bande dessinée, esperti di quei luoghi perduti e filosofici chiamati bar. Soprattutto Muñoz, la cui famiglia è stata proprietaria di due locali, ambedue frequentati nell’infanzia da José. Muñoz & Sampayo arrivano in Italia nel 1974, dalla Spagna, entrambi esuli argentini, dirottandosi quasi subito a Lucca e nelle fantasmagorie del Festival, e poco dopo nelle pagine di Alter pubblicato dalla Milano Libri. Gli anni in cui se citavi Oreste Del Buono, Fulvia Serra, Cettina Novelli e tutta la banda ruotante in Linus, immediatamente eri proiettato nell’universo-mito, nelle universali grafie dell’inchiostro di china e delle matite.
Da clandestini significava anche mangiare, sfuggendo alle decine di lettere minatorie zeppe di minacce di morte ricevute da Del Buono, e ai fantasmi presentiti dalla coppia dietro ogni angolo: oltre al regime fascista spagnolo, s’era in anni di stragi fasciste e Brigate Rosse. Bisognava stare attenti, ma dentro a questa realtà gli agganci narrativi si trovavano ovunque, dagli esordi fino all’Alack Sinner fuoriuscito dall’estro del disegnatore e dello sceneggiatore nei primi anni Ottanta. Complessità narrativa e disegnata come raramente si vedeva, una cucina a cui futuri blockbuster cinematografici attinsero senza ritegno. Ma è storia. Ed è già storia anche quest’album di grande formato (21.5×30 cm di peso ragguardevole) in cui sono raccolte le diverse storie apparse già singolarmente, con l’aggiunta di una formidabile intervista/conversazione fra gli autori e Igort, progettista editoriale di Oblomov (con l’alleanza di Elisabetta Sgarbi e la sua Nave di Teseo).
Fra le pareti del Bar, e nelle zone adiacenti, avvengono fatti che si presuppongono derivati dalle storie madri di Alack Sinner, con personaggi la cui anagrafica immaginiamo abbia molto a che fare col jazz, e con i tremori letterari di una fuligginosa New York. Meglio non farci affascinare dalla parola “realismo”, se mai dalla correttezza narrativa (stesa sulla carta come fosse Van Gogh a farlo) elargita a conoscenze amorose d’ogni tipo e genere. E poi esiste un jukebox del racconto che non aspetta altro che qualcuno inserisca una moneta nella sua fessura, attivando un erotismo ambizioso e ambito. E fra le carte delle indagini, il duo si fa largo come se nottetempo avesse potuto accedere ai cassetti serrati di una stazione di polizia. Con il condimento di diari segreti e vie secondarie. Ma come non pensare agli stereotipi (meravigliosi) visti e stravisti nei film hollywoodiani del dopoguerra? Le star allora si sottoponevano volentieri al violento bianco e nero delle pellicole. Una bellissima Joan Crawford, ambita creatura d’irregolari incontri notturni, si trasformava in pura celluloide. Altamente infiammabile, come sanno i custodi dei magazzini filmici (e i velleitari sognatori di Cinecittà).
Cosa troviamo nelle ampie pagine di Nel bar? L’integrità delle storie, del tempo duro in cui navigano uomini, donne, e qualsivoglia meraviglia umana (e loschi tipi al margine dell’inumano) dove la singola psiche si ritrova gettata in un corpo a sua volta gettato sul selciato fradicio dove i colori davvero non esistono. Particolare, leitmotiv, che Muñoz conosce dalla notte dei tempi ma che certamente non gli ha reso facile il compito di disegnarlo. I maestri stanno in disparte, confabulano tra loro: Hammett e Chandler e un certo Corto, l’inventore “maltese” del Pratt veneziano e cosmopolita. Letteratura gialla, si può dire? L’azione si sviluppa in altre azioni, e c’è sempre qualcuno che dice “guarda che le pagine scorrono e ancora non si vedono cadaveri…” Muñoz & Sampayo sono i perfetti reporter di una folla di facce che non appaiono deformate da patologie oculari, ma che appartengono alla vera “realtà”: presupposta da noi comuni mortali ma che soltanto pochi (oltre al nostro duo) hanno avvistato e ritratto: Francis Bacon e Vincent Van Gogh.