Morozzi quanto basta

Gianluca Morozzi, Gli Annientatori, Tea, pp. 196, euro 13,00 stampa

Gli editori che ne hanno finora dato alle stampe l’ampia produzione libresca, negli strilli impressi su svariate copertine, tendono a ricordare al pubblico dei lettori che Gianluca Morozzi è l’autore di Blackout. Niente da dire, un ottimo romanzo, campione di vendite, diventato poi film sul mercato americano, caso rarissimo nella scena editoriale del Belpaese. Se dunque lo strillo si chiama strillo per qualche sacrosanto motivo, è giusto strillarle certe cose, ci mancherebbe.

Ma Morozzi è pure autore di L’era del porco, Colui che gli Dei vogliono distruggere, romanzi originalissimi ed esilaranti, scritti con la stessa scanzonata felicità narrativa che ritroviamo in pamphlet come L’Emilia o la dura legge della musica e in raccolte di racconti quali Dieci cose che ho fatto ma che non posso credere di aver fatto, però le ho fatte.

Ed è palese, di romanzo in romanzo, quanto il gusto letterario di Morozzi, nonché la sua innata destrezza nell’interpretare generi contrapposti fra loro – principalmente l’umorismo tout-court e il noir – abbiano finito col compenetrarsi. Il risultato della fusione si è andato via via cementando nell’arco degli ultimi titoli apparsi in libreria – che, tenuto conto della straripante verve creativa del nostro, non sono nemmeno pochini -, fino al completamento della fase avvenuto con Gli Annientatori. Qui c’è proprio tutto: cinismo e commedia, crudeltà e brillantezza, humor e thriller, senza dimenticare qua e là una spruzzatina di horror, Q.B. da esaltarne i sapori e che di certo non appesantisce una ricetta finale davvero equilibrata, testimone di un’impronta stilistica ormai giunta a maturazione.

È estate, siamo in una rovente Bologna dei giorni nostri e lo scrittore Giulio Maspero non solo è rimasto al verde, ma tanto per non farsi marcar nulla è stato buttato fuori casa dall’ex fidanzata. Un inaspettato colpo di fortuna investe tuttavia di una nuova luce la buia strada che temeva d’aver imboccato. Durante il rapido consumarsi di quella che ritiene la sua tragedia personale, una sera Giulio incontra casualmente in un locale tal Mauro Britos, disegnatore di fumetti caratterizzato da un tratto di estremo realismo, ideale per i fumetti d’orrore che illustra. I due si conoscono già, ma prima della sera in cui le cose per Maspero si erano messe male non si erano praticamente rivolti parola. Viene fuori che Britos è in partenza per l’Uruguay ed è in cerca di qualcuno di fidato cui chiedere se in sua assenza possa trasferirsi nell’appartamento che ha affittato e annaffiargli le piante. L’unica condizione che Britos pone a Giulio è la riservatezza. Non è il caso che si spargano strane voci, mi casa tu casa ma fatti i fatti tuoi, per dirla in sintesi.

Maspero, accecato dalla possibilità di sollevarsi almeno per un periodo dall’impiccio di trovarsi una nuova sistemazione, e colta la palla al balzo per terminare il romanzo che potrebbe rimettergli in sesto le finanze, non se lo fa ripetere. Stabilitosi però nell’appartamento del disegnatore in trasferta, oltre ad accorgersi che di piante non ne esistono tracce alcune, Giulio entra immediatamente in rapporti con gli abitanti dei restanti interni della palazzina, tutta di proprietà della sinistra famiglia Malavolta. Gente accogliente, fra parentesi, ma ai limiti dell’invadenza. Anzi: ben oltre i limiti dell’invadenza. Peccato che a Giulio la cosa inizi a puzzare troppo tardi e la trama ordita a sua insaputa abbia cominciato a snodarsi da un pezzo e adesso il gran finale non è più così lontano.

Un romanzo ibrido, che a tratti diverte grazie a una voce narrante che mantiene effervescente il generale appeal drammaturgico, mentre i colpi di scena si susseguono a centrifuga, finché il gorgo nel quale Maspero viene trascinato inghiottisce quando meno se l’aspetta anche il lettore.

Che sull’ultima, impensabile riga, ci resta di sale. E fa i complimenti allo chef.