In Italia siamo ormai abituati agli eventi a scoppio ritardato, alle verità rivelate a decenni di distanza, alle ucronie, agli sfasamenti temporali, agli effetti che precedono le cause, e alla politica intrisa di dietrologia. Tutti questi aspetti inquietanti della storia italiana si riflettono alla perfezione nel Caso Moro, del quale ricorre quest’anno il quarantennale dalla Strage di Via Fani e dalla sua tragica conclusione, il ritrovamento del cadavere in Via Caetani. L’affaire Moro, come lo chiamava Sciascia, è diventato una sorta di enorme buco nero che risucchia con la sua forza gravitazionale qualsiasi evento si trovi nelle sue vicinanze, facendolo sparire oltre il proprio orizzonte degli eventi. Ma il Caso Moro non solo ha influenzato la Storia d’Italia successiva all’evento, come è ovvio: esso ha paradossalmente modificato anche gli eventi accaduti prima di esso, permettendone una rilettura alla luce di ciò che era accaduto in quei 55 giorni.
Esiste infatti tutta una serie di morti sospette verificatesi negli anni ’70 che rimarranno per sempre inspiegabili se non andiamo a cercare – come viaggiatori interstellari – nella “singolarità” Moro, anzi sono morti che sembrano essere state causate proprio dal sequestro Moro, invertendo il rapporto di causa-effetto. Il Caso Moro è uno di quegli avvenimenti storico in cui si intrecciano in modo inestricabile la realtà dei fatti con le fantasie di chi in quegli anni ha ipotizzato tutta una serie di complotti; che poi tanto fantasie forse non erano, vista la fine che hanno fatto alcuni dei protagonisti di quelle vicende. Pensiamo ad esempio alla morte di Mino Pecorelli, il giornalista d’assalto di OP forse ucciso perché a conoscenza dei contenuti del Memoriale Moro nella sua versione integrale; pensiamo al Colonnello Varisco, fornitore di documenti scottanti a Pecorelli, probabilmente ucciso dalle Brigate Rosse; alla morte del Generale Dalla Chiesa in un agguato mafioso a Palermo, che forse custodiva nella sua cassaforte la versione integrale del Memoriale Moro; alla morte del falsario Toni Chichiarelli, l’autore del falso comunicato n. 7 delle BR, freddato con un colpo di pistola al quartiere Talenti di Roma; a Graziano Gori, dirigente dell’Ufficio Politico della Questura di Bologna, morto forse a causa della manomissione dei freni della sua auto; allo strano suicidio del Tenente Colonnello Mario Ferraro, agente del SISMI morto impiccato con la cinghia dell’accappatoio ad un porta-asciugamano nel bagno del suo appartamento al Torrino, a Roma – e così via.
Anche la trama di questo romanzo di Antonio Ferrari, giornalista vecchio stampo del Corriere della Sera, scritto quando il giornale di Via Solferino era pesantemente coinvolto nello scandalo P2, racconta un complotto internazionale volto a condizionare l’assetto politico dell’Italia di fine anni ’70, favorendo il progetto delle Brigate Rosse di rapire un grosso esponente della Democrazia Cristiana – mai nominato nel libro, ma identificabile come avatar di Aldo Moro. Questo romanzo, che a detta dello stesso autore gli fu commissionato con lo scopo di riscattare l’immagine del Corriere infiltrato dai piduisti raccontando alcune verità scomode sul Caso Moro, è rimasto inedito per quasi quarant’anni; in esso si intrecciano tutta una serie di contatti tra personaggi che nessuno pensava si potessero mai incontrare (agenti della CIA ferocemente anticomunisti ed esponenti della sinistra extraparlamentare, tanto per fare un esempio) e diverse morti apparentemente inspiegabili, ma in ultima analisi sempre riconducibili a quella trama internazionale che effettivamente ci fu e fece da sfondo a tutta la vicenda Moro e a tutta la fase preparatoria dell’Operazione Fritz, come la chiamarono i brigatisti. Non è difficile riconoscere dietro i nomi dei personaggi alcuni dei capi delle Brigate Rosse dell’epoca (Franco Marozzi, il capo militare delle BR nel romanzo, è chiaramente Mario Moretti; Privato Galletti è la controfigura di Prospero Gallinari, il terrorista duro e puro che mal sopporta gli intrighi di Marozzi), e di altri personaggi inquietanti realmente sfiorati dalle indagini sulle Brigate Rosse e sospettati di avere avuto un ruolo nella complessa trama che aveva lo scopo di destabilizzare, per poi successivamente stabilizzare il quadro politico italiano (una strategia ricorrente, quella di destabilizzare per stabilizzare), impedendo che i comunisti del PCI andassero al governo del paese.
Ferrari si preoccupò all’epoca di cambiare i nomi e anche i luoghi in cui alcuni eventi si verificarono: ad esempio il Convegno sulla repressione che nel romanzo si svolge a Genova si tenne in realtà a Bologna nel 1977; l’uccisione di un autonomo al fine di attizzare il fuoco dello scontro sociale è un chiaro riferimento alla morte di Francesco Lorusso, ecc. Nel romanzo si ipotizza inoltre che il prigioniero Moro sia stato rilasciato dalle Brigate Rosse sulla tangenziale di Milano (invece che a Roma) ma successivamente ucciso da chi non voleva che il sequestro si concludesse con la sua liberazione. A parte quest’ultima ipotesi, non proprio credibile, tutte le altre circostanze raccontate da Ferrari hanno trovato riscontro in diverse indagini condotte all’epoca e nel lavoro d’inchiesta dell’ultima commissione parlamentare sul Caso Moro. Inutile dire che, se il romanzo fosse stato pubblicato all’epoca, all’inizio degli anni ’80, sarebbe stato una vera e propria bomba. Ancora una volta, come tante altre volte nella Storia d’Italia, ci troviamo di fronte ad un ordigno a scoppio ritardato, che esplode come un semplice petardo quando ormai non può più fare danni, a una verità negata per tanti anni e oggi finalmente tornata alla luce. Eppure l’autore, nella Postfazione al volume, si sente quasi di ringraziare chi all’epoca censurò il suo manoscritto, perché col passare del tempo le indagini condotte in questi ultimi anni hanno fatto quasi coincidere la trama del romanzo con la realtà dei fatti.