C’era e non c’era – così cominciano tutte le storie sinte – una famiglia, non solo nel significato stretto del termine ma una famiglia allargata, unita da una cultura comune, da una sopravvivenza raccontata vicino al fuoco, da leggende sussurrate nel vento. Così Jezebel cresce con gonne trascinate da danze e balli ai piedi delle kampine, le case sinte; con trecce ai lunghi capelli, con le storie di suo padre e gli spiriti che vorticano attorno alle leggende. Leggende dove, ad esempio, un cardellino di nome Lolo Ciriklò venne catturato dagli uomini per la sua bellezza e non volendo dar loro la sua bella voce, si lasciò morire. O di come una sinta di nome Jasmina, pur tormentata dai diavoli, non rinnegò la sua gente e decise di non causare dolore.
Il romanzo di Morena Pedriali Errani – nata a Ferrara, di origini sinte e circensi, attivista per le minoranze Romanì – sembra una storia sussurrata nel vento, che pone domande e cerca risposte nella voce degli antenati che parlano attraverso il tempo. Jezebel vive serenamente ascoltando melodie sinte con la sua famiglia quando il paese che l’ha partorita e nutrita comincia a oscurarsi nell’ideologia fascista: vengono ripudiati, incarcerati, segregati a vivere nei boschi senza possibilità di esibirsi in acrobazie circensi, feriti, scherniti. Ci stiamo avviando verso la Seconda Guerra Mondiale, verso le deportazioni di sinti e rom, verso la decisione di sterilizzarne le donne – e Jezebel fronteggia le divise fasciste che bruciano la sua casa e prendono la sua famiglia unendosi al movimento partigiano. Il suo nome di battaglia sarà Fiamma – così come è accaduto alla nonna dell’autrice, che vediamo ritratta in foto in coda al romanzo, Fiammetta Pedriali.
Jezebel capisce nelle violenze perpetrate nella sua pelle che i pregiudizi scalfiscono la pelle per arrivare a bruciare l’anima intera del popolo sinto. Lo capisce quando, all’ombra di un uliveto, viene presa a sassate da ragazzi fascisti. Lo capisce quando, per curare suo padre, viene violata. Lo capisce quando decide di uccidere un soldato tedesco, andando contro tutto quanto i sinti credono: “la violenza è come un cancro, come la pece. Se ti sporca, sei persa per sempre”. Lo capisce quando viene tradita da un gagé, da un non sinto, e tutta la sua famiglia cominciò a bruciare. Lo capisce quando è costretta a lasciare i morti e a scappare. Lo capisce quando viene catturata e torturata – ma come il cardellino Lolo Ciriklò, Jezebel non darà ai suoi carcerieri la sua voce.
Le leggende sinte inondano la storia di Jezebel di luce, di speranza, di umanità – storie a cui, forse, Jezebel pensa mentre la notte avanza. Sono leggende e storie cantate dal vento, dal passato, dall’origine dei tempi. Storie di sinti innamorati che viaggiano fino al regno oltre la notte per cogliere fiori del vento e trasformarli in oro per amore. Storie di donne del destino, le Keshalyi, che proteggono le donne sinte. Storie di amori sinti sulle ali di farfalle. E storie che intessono la trama della vita di Jezebel – la storia di suo padre Nehat e sua madre Snežana, di antenati come Sinibaldo che diedero inizio agli spettacoli circensi, della Madonna nera protettrice dei circensi. Per Jezebel queste sono storie del suo passato, storie del suo presente, storie di vita.
C’era e non c’era il popolo sinto. C’era e non c’era Jezebel, Fiamma e la lotta partigiana. C’era e non c’era la storia di una cultura ai margini della Storia. C’era e non c’era un romanzo che è una testimonianza sussurrata dal vento.