Il testo è tratto da “L’insurrezione immaginaria. Valerio Evangelisti autore, militante e teorico della paraletteratura (2023, Mimesis edizioni), per gentile concessione dell’Editore
Louis-Auguste Blanqui (1805-1881), pur nato da una famiglia benestante, passò dal repubblicanesimo giovanile (cosa che già gli costò due anni di carcere per della polvere pirica ritrovata durante una perquisizione nella Société des familles da lui fondata nei primi anni Trenta del XIX secolo) al socialismo di carattere comunista proprio durante gli anni della prima detenzione. Che non fu l’unica, visto che avrebbe complessivamente trascorso, tra il 1831 e il 1879, trentasei anni e cinque mesi in prigione, motivo per cui ci si riferisce ancora oggi a lui come all’Enfermé (il Recluso).
Con l’amnistia del 1836 tornò in attività e fondò la Société des saisons con la quale, nel 1839, partecipò all’organizzazione di un’insurrezione che gli costò la condanna a morte, commutata in ergastolo, dal quale fu graziato otto anni dopo. Partecipò ai moti del 1848 e aderì con alla Société républicaine, ma fu nuovamente arrestato e condannato alla deportazione in Africa, da dove tornò con l’amnistia del 1859 per essere ancora arrestato nel 1861. Dopo essersi sottratto alla legge andando in esilio in Belgio, continuò incessantemente la propria azione di propaganda politica, fondando i periodici «Candide» e «La patrie en danger». Per rientrare poi in Francia nel 1870 dopo la caduta di Napoleone III a seguito della sconfitta francese nella guerra franco-prussiana. Dopo un’ennesima incarcerazione, Blanqui avrebbe pubblicato, nel biennio 1880-81, il giornale «Ni Dieu ni maître» (“Né Dio né padrone”), titolo talmente programmatico da esser diventato un dei motti più conosciuti dell’anarchismo[1].
Uomo d’azione più che elaboratore di teorie, egli fu sempre fermamente convinto che il proletariato avrebbe potuto creare da sé una società di liberi e di uguali soltanto mediante un’insurrezione armata guidata da una piccola minoranza ben organizzata e decisa ad imporre la dittatura del proletariato (di cui fu il primo ad elaborare il concetto, in anticipo sugli stessi Marx e Engels)[2].
Il legame che esiste tra l’opera di Valerio Evangelisti e quella di Auguste Blanqui è però molto più profondo di quanto possa suggerire il fatto che il primo abbia intitolato il secondo volume della trilogia del Sol dell’avvenire con una delle frasi più celebri di Blanqui: Chi ha del ferro ha del pane.
Per questo motivo, al di là delle simpatie blanquiste e per l’azione spontanea degli oppressi spesso presenti nelle riflessioni e negli scritti di Evangelisti, verrà qui presa in considerazione l’autentica venerazione che l’autore bolognese aveva per un’opera meno conosciuta del rivoluzionario francese, scritta mentre quest’ultimo languiva in carcere per essere stato arrestato proprio il giorno prima della proclamazione della Comune, il 17 marzo 1871. A seguito di ciò era stato prima condannato alla deportazione, il 17 febbraio 1872, poi commutata in carcere a vita e per motivi di salute incarcerato a Clairvaux, da cui fu in seguito trasferito al Chateau d’If, da dove poté uscire nel 1879 in seguito ad un provvedimento di amnistia, che non riconobbe però il fatto che Blanqui fosse stato eletto deputato a Bordeaux.
Quest’opera, intitolata L’éternité par les astres , paradossalmente pubblicata il 20 febbraio 1872, tre giorni dopo la sua condanna all’ergastolo, va considerata come un autentico livre de chevet per Valerio Evangelisti, tanto da averlo spinto ripetutamente a consigliarlo come utile lettura ad amici, compagni e redattori di «Carmillaonline», la webzine di cultura, letteratura e immaginario di opposizione da lui fondata nel 2003.
Ogni astro, qualunque esso sia, esiste dunque un numero infinito di volte nel tempo e nello spazio, e non solamente in uno dei suoi aspetti, ma in tutte le forme che assume in ogni istante della sua esistenza, dalla nascita alla morte. Tutti gli esseri disseminati sulla sua superficie, grandi e piccoli, vivi o inanimati, condividono il privilegio di tale eternità. La Terra è uno di codesti astri. Ogni essere umano è dunque eterno, in ogni istante della sua esistenza. Quel che scrivo in questo momento in una cella di Fort du Taureau, l’ho già scritto e lo scriverò in eterno, su un tavolo, con una penna, con vestiti e in circostanze assolutamente simili. Così per ognuno di noi.
Tutte queste terre si inabissano, una dopo l’altra, nelle fiamme rinnovatrici, per rinascere e per ricadervi ancora, monotono deflusso della sabbia di una clessidra che si gira e si svuota eternamente. Il nuovo è sempre vecchio e il vecchio è sempre nuovo[3].
Queste righe comprese nel Riassunto posto al termine dell’opera suggeriscono il contenuto delle riflessioni di Blanqui sul cosmo, gli astri e il destino o il divenire di ogni singolo essere vivente, incluso l’uomo. Il tutto, però, inserito in un contesto in cui l’esistenza di infiniti mondi paralleli supera il mito dell’eterno ritorno, poi ripreso e rafforzato nel pensiero di Nietzsche, per aprirsi alle infinite possibilità che si offrono, seppur in mondi diversi, all’agire umano in direzione del cambiamento dell’esistente.
Il testo di Blanqui affronta il tema attraverso una visione che non è suggerita dalla disperazione legata alla lunga prigionia prevista, inserita nel corso di una vita già segnata da decenni di detenzione, ma dalla speranza o addirittura dalla sicurezza che ciò che è stato sconfitto o non è possibile qui ed ora può risultare vincitore, e quindi essere possibile, in un altro momento, in un altro mondo. Massima espressione quindi della fiducia nel positivo esito della lotta contro lo sfruttamento e il domino dell’uomo sull’uomo.
Il tema dei mondi paralleli, oltre ad essere discusso come uno dei paradossi o delle possibili conferme della fisica più avanzata, ha certamente costituito un tema ricorrente della Fantascienza, dai fumetti di Brick Bradford ai romanzi e racconti di Murray Leinster, Jack Williamson, Philip K. Dick, Poul Anderson, Michael Moorcock e molti altri ancora. Romanzi e racconti che immaginano possibilità diverse per l’evoluzione dell’uomo e della sua storia, di cui The Man in The High Castle di Dick (1962)[4], che immagina un mondo in cui la seconda guerra mondiale è stata vinta dal Giappone e dalla Germania e gli Stati Uniti sono stati occupati e colonizzati per gran parte del loro territorio, costituisce ancora uno dei più validi esempi. Mondi paralleli che assumono spesso il volto dell’ucronia e della distopia o anti-utopia come capita, soltanto per citarne ancora uno, nel mondo dominato dai vampiri e in cui Dracula ha sposato la regina Vittoria del ciclo di romanzi e racconti di Kim Newman[5].
Ma in cui occorre intravedere la possibilità che, come aveva affermato Albert Einstein, in occasione della morte di un suo caro amico, “ciò che non è qui ora e adesso non è detto che non sia invece presente in un altro angolo dell’Universo”. Ovvero nel tempo e nello spazio o, se si preferisce, nello spazio-tempo intuito dallo steso ideatore della teoria della relatività.
Supponiamo comunque diversità che riducano le somiglianze a pura analogia. Si passeranno in rassegna miliardi di terre della stessa specie prima di riscontrare una totale somiglianza. In tutti questi globi ci saranno, come nel nostro, terreni terrazzati, una flora, una fauna, dei mari, un’atmosfera, degli uomini. Ma la durata dei periodi geologici, la ripartizione delle acque, dei continenti, delle isole, delle razze animali e umane, offriranno innumerevoli varietà.
Nasce infine una terra che ha la nostra tessa umanità, ma che presenta razze, migrazioni, lotte, catastrofi, imperi lei propri. Tutte queste peripezie cambiano i suoi destini, la proiettano su strade che non sono quelle del nostro globo. In ogni minuto, in ogni secondo, migliaia di direzioni diverse si offrono a questo genere umano. Ne sceglie una, abbandona per sempre le altre. Quanti scarti a destra e a sinistra modificano gli individui, la storia! Non è lì il nostro passato. Mettiamo da parte questi confusi tentativi. Percorreranno il loro cammino e saranno dei mondi.
[…] L’avvenire della nostra Terra, così come il suo passato, cambierà strada milioni di volte. Il passato è un fatto compiuto, ci appartiene. L’avvenire sarà fissato soltanto alla morte del globo. Da oggi sino ad allora, ogni istante avrà il suo bivio, la strada che si prenderà, quella che si sarebbe potuta prendere. Qualunque sia, la strada che dovrà completare l’esistenza propria del pianeta fino al suo estremo giorno è già stata percorsa miliardi di volte. Sarà solo una copia impressa con secoli di anticipo.
Non sono soltanto gli eventi a creare alternative agli uomini. Quale uomo non si trova a volte davanti a due strade diverse? Quella da cui si allontana cambierà radicalmente la sua vita, pur lasciandogli la stessa individualità. Una conduce alla miseria, alla vergogna, alla schiavitù. L’altra porta alla gloria, alla libertà […] Che si scelga il caso o la volontà deliberata, non ha importanza, non si sfugge alla fatalità. Ma la fatalità non esiste nell’infinito, che non conosce alternativa e ha un posto per ogni cosa. Esiste una terra in cui un uomo segue la strada che il suo sosia ha disprezzato nell’altra. La sua esistenza si sdoppia in due globi diversi e poi si biforca una seconda, una terza volta, migliaia di volte. Possiede così sosia completi, e innumerevoli varianti, che moltiplicano e rappresentano sempre la sua persona, ma che condividono soltanto frammenti del suo destino. Tutto quel che si sarebbe potuto essere quaggiù, lo si è da qualche parte, altrove. Oltre alla nostra esistenza che, dalla nascita alla morte, viviamo su una miriade di terre, ne viviamo diecimila differenti edizioni su altre ancora[6].
L’enfermé, come lo aveva definito Gustave Geffroy, il primo autore di una biografia di Blanqui (L’enfermé, pubblicata in Francia nel 1897), si era librato quindi ben oltre le strette mura di una cella, ben oltre le condanne e le vicissitudini che lo avevano accompagnato per decenni, per librarsi, comunque libero di pensare e di immaginare, al di sopra dei limiti sociali, economici, fisici che sembravano limitare l’agire umano da tempi immemori. E tutto ciò non poteva certo dispiacere ad un autore come Valerio Evangelisti, non soltanto dal punto di vista scientifico e fantascientifico, ma anche filosofico e politico.
Se, infatti, il tema di un aldilà o di un futuro lontanissimo in cui l’inquisitore Eymerich, il protagonista del suo ciclo più noto e importante di romanzi, agisce o torna ad agire oltre la morte fisica come in Cherudek oppure negli ultimi romanzi del ciclo[7] o apparire, ancora, come fantasma o proiezione fantasmatica ad uno stupefatto Wilhelm Reich rinchiuso nella cella di un manicomio americano in Picatrix, la scala per l’inferno, è proprio nei romanzi in cui la lotta di classe è protagonista quasi assoluta che l’idea di Blanqui delle infinite possibilità si fa avanti con più forza.
Come ha sostenuto Luca Cangianti:
Nella poetica di Valerio Evangelisti i finali hanno un impatto estetico folgorante, ma anche un profondo significato politico: “Molti miei romanzi – dice in una videointervista – finiscono con una battaglia perduta che però vale la pena di essere combattuta, perché già la battaglia è liberazione”[8].
Per aggiungere poi ancora:
“Tiriamo le somme. Nei romanzi di Evangelisti i ribelli combattono, a volte riescono persino a edificare cittadelle provvisorie di libertà, ma, in sprezzo a qualsiasi retorica edificante, sono spesso sconfitti, anche se qualcosa della loro battaglia finisce per sopravvivere nelle lotte future.
Questa struttura ricorda in maniera capovolta quella del Signore degli Anelli. L’avventura di Frodo è costruita secondo l’archetipo del viaggio dell’eroe studiato da Joseph Campbell e Christopher Vogler. Con una variazione fondamentale, però: il protagonista conosce le meraviglie e gli orrori del mondo straordinario, sconfigge il nemico, ma non torna conciliato e arricchito nel mondo ordinario.
Anche la Contea, infatti, è stata contaminata: Frodo, Sam, Merry e Pipino sono quindi costretti a intraprendere un’ulteriore battaglia contro il regime estrattivista instaurato da Sharkey, alias Saruman, nella loro terra. Dopo quest’ultima vittoria ci si aspetterebbe che Frodo possa esser accolto trionfalmente nel mondo ordinario. Ma ancora una volta non è così: il viaggio di questo hobbit continua come quello dell’Ulisse dantesco. L’eroe non riesce a trovar pace e si rimette in cammino; la narrazione rimane aperta, slabbrata, alludendo a qualcosa di eccedente che pulsa al di fuori di essa. L’eroe torna, si rende conto di non poter terminare il compito rivoluzionario nella sua terra e sceglie di ripartire. Come Che Guevara. Per il cristiano Tolkien il male, pur battuto, non sarebbe mai scomparso dal mondo. Con la distruzione dell’Anello, Sauron è sconfitto, ma non muore. Egli perde la propria corporeità, ma nulla esclude che possa riacquistarla, come già accaduto in passato nel Bosco Atro. La resilienza del male allunga indefinitamente il viaggio dell’eroe. Il Signore degli Anelli si chiude con un sospiro di sollievo: “Sono tornato”, dice Sam, ma poi veniamo a sapere dalle Appendici che, rimasto vedovo, egli sarebbe in seguito salpato dai Rifugi Oscuri per le Terre Imperiture.
Durante un banchetto a Gran Burrone, Bilbo confessa a Frodo le sue riflessioni: “Possibile che le avventure non abbiano una fine? Ma forse no. C’è sempre qualcun altro che prosegue la storia”.
Frodo è un eroe inquieto perché arriva a comprendere e ad accettare che sia il viaggio che la sua narrazione non possono concludersi mai del tutto. A Sam che gli chiede se “i grandi racconti” hanno una fine, risponde: “No, non terminano mai i racconti… Sono i personaggi che vengono e vanno, quando è terminata la loro parte”. Le storie che si chiudono sono reazionarie. Per qualche tempo il male sgattaiola via disincarnato da Luigi XVI, dallo zar o da Hitler, ma poi finisce per reincarnarsi in Napoleone, in Stalin o magari in un politico qualsiasi eletto democraticamente.
Anche in molti romanzi di Evangelisti la lotta continua, ma a vincere è sempre il principio della reazione, mentre è la ribellione che, come Sauron, migra disincarnata da un ciclo di lotta a un altro futuro. Di volta in volta assume le forme di uno spirito ancestrale, di una vecchia Colt a tamburo, di un amore che sboccia sulle banchine del porto di Seattle.
La coraggiosa speranza degli indigeni evasi da Sepultura, di Sheryl, Pantera, Kate, Barbara, Phil, Adele, Folco e Cincin si deve fondere con la malinconica saggezza di Frodo. Si tratta di una feconda indicazione narrativa e al tempo stesso di un potente antidoto politico”[9].
L’avventura o la ribellione, oppure la Rivoluzione e il cambiamento radicale sono resi possibili dai viaggi tra i mondi e le infinite possibilità sparse nell’Infinito e nel Tempo, sempre sorprendenti, ma sempre ferreamente definite da quei cento elementi fisico-chimici che, nel gioco ricombinatorio del Cosmo e della Natura, nell’opera di Blanqui rendevano possibile sia la varietà che l’uniformità degli universi o mondi paralleli. Idea non molto dissimile, dal punto di vista letterario, da quel numero esiguo di trame e possibilità su cui da sempre sarebbe “costretta” ad improvvisare la narrazione, orale o scritta non importa, secondo Kostantin Stanislavski.
Improvvisazione legata però sempre, esattamente come per il musicista che improvvisa nel jazz, ad uno spartito iniziale di cui è possibile ricombinare suoni, ritmi e tempi per ottenere qualcosa di diverso dal tema di partenza. Intuizione necessaria per comprendere la fedeltà e la difesa di Valerio Evangelisti nei confronti della letteratura di genere, o paraletteratura, che basandosi su norme condivise dal pubblico permette agli autori migliori di eliminarne alcune senza però mai poter fare a meno di tutte. Pena l’uscire dal “genere” e dalle aspettative dei lettori, che non possono mai essere tradite del tutto[10].
Ecco allora che il “pensare cosmico” di Blanqui incrocia perfettamente la battaglia di Evangelisti per strappare l’immaginario alla sua colonizzazione da parte del capitale, per rifondarne un altro. Ovunque sia possibile. Una battaglia in cui spazio e tempo giocano un ruolo fondamentale, finendo spesso col coincidere come nello spazio-tempo della fisica successiva ad Einstein.
Tempo su cui oggi si gioca, nel tentativo di cancellare ogni memoria delle possibilità di cambiamento radicale che si son presentate agli uomini e alle loro strutture sociali nel corso della storia pregressa, soprattutto una partita fondamentale rappresentata dalla celebre affermazione sulla fine della storia di Francis Fukuyama. Affermazione arrogante e apodittica che nel negare la Storia finiva col negare non solo l’importanza e la presenza del passato per la comprensione dei problemi della società (e la loro possibile risoluzione sulla base di diverse prospettive e aspettative), ma anche il futuro. Riducendo tutto ad un eterno presente, immodificabile e in cui sono destinati a vigere perpetuandosi i valori della società liberale eretta dal dominio del capitale.
Ecco allora il perché della scelta di Valerio Evangelisti, proprio all’interno del ciclo di Eymerich, di non cogliere mai, nella tripartizione temporale di ogni romanzo, il momento attuale, il presente.
Nei romanzi gli avvenimenti si svolgono nel Medio Evo dell’inquisitore catalano, in un futuro sempre lontano, se non lontanissimo, e in un presente sempre rappresentato, però, per mezzo di uno scarto temporale che fa sì che l’azione non coincida con il tempo del lettore. Una sorta di presente parallelo e sfuggente, non inquadrabile in un ordine temporale e sociale definito una volta per tutte.
Un presente parallelo o anticipatorio che nega la solidità di quello “reale”, ancora determinato dal Capitale e dalle sue leggi e magari anche da un passato sanguinario e sanguinoso di sconfitte e illusioni, ma che non conferma affatto la stabilità e l’eternità dello stesso.
Un presente fuggevole, quello reale, e insignificante rispetto a cui contano molto di più l’esperienza del passato, con i suoi crimini e le sue sconfitte, e le possibilità che si aprono ad ogni bivio per ogni uomo, donna o società in rivolta. Ci sarà sempre un nuovo inizio e una nuova partita da giocare, fino alla fine del globo su cui viviamo e da cui non possiamo separarci. Ed è proprio in questa prospettiva di superamento del miserabile presente che l’opera di Valerio Evangelisti e la visionarietà di Auguste Blanqui finiscono col coincidere. Perfettamente.
NOTE
- Per una più ampia ricostruzione della vita di Auguste Blanqui si rinvia a M. Dommaget, Blanqui, Erre emme edizioni, Roma 1990. ↑
- Per un primo sguardo antologico alle opere di Louis-Auguste Blanqui, si rinvia invece a L.A. Blanqui, Socialismo e azione rivoluzionaria, a cura di G.M. Bravo, Editori Riuniti, Roma 1969. ↑
- A. Blanqui, L’eternità attraverso gli astri, a cura di F. Desideri, traduzione di G. Alfieri, SE edizioni, Milano 2005, p.75. ↑
- P. K. Dick, La svastica sul sole, Science Fiction Book Club, Piacenza 1965. ↑
- K. Newman, Anno Dracula (1992), prima traduzione italiana Fanucci, Roma 1997; K. Newman, The Bloody Red Baron (1995), prima traduzione italiana come Il barone sanguinario, Fanucci, Roma 1998 e K. Newman, Dracula Cha Cha Cha (1998), prima traduzione italiana Urania n. 1538, Arnoldo Mondadori Editore, Milano settembre 2008. ↑
- A. Blanqui, op. cit., pp. 60-61. ↑
- V. Evangelisti, La luce di Orione, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2007; V. Evangelisti, Rex tremendae maiestatis, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2010; V, Evangelisti, Eymerich risorge, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2017 e V. Evangelisti, Il fantasma di Eymerich, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2018. ↑
- L. Cangianti, Il valore delle battaglie perse. L’operaismo narrativo di Valerio Evangelisti in S. Moiso, A. Sebastiani (a cura di), L’insurrezione immaginaria. Valerio Evangelisti autore, militante e teorico della paraletteratura, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2023, p. 15. ↑
- L. Cangianti, op. cit. PP. 30-31. ↑
- Le presenti considerazioni sul numero fisso di trame possibili che obbligano l’autore a un gioco ricombinatorio tra le componenti delle stesse e sull’ineludibilità delle regole dei “generi” letterari ( e cinematografici) derivano dagli appunti personali presi in occasione della partecipazione del redattore di questo articolo al corso tenuto da Robert McKee, Strutture della sceneggiatura, tenutosi a Roma presso il Centro sperimentale di cinematografia dal 14 al 19 novembre 1990. ↑