Lucia Berlin, Sera in paradiso, tr. Manuela Faimali, Bollati Boringhieri, pp. 288, €18,00 stampa, €9,99 eBook
Lucia Berlin salta su da luoghi magici, densi di polvere gialla e alcol d’alta gradazione: deserti mirabili, pueblos e centinaia di chilometri di confine in comune con i terribili e temibili yankees. Lucia Berlin (da pronunciare Lusìa) ha occhi magici, truccati come se le avesse insegnato Liz Taylor, sguardo e atteggiamenti inarrivabili per certe signore con le mani sui fianchi, fra l’ironico e il fascinoso, stile “bella preda” impossibile. L’espressione anni ’60 è quella originale, sigaretta in mano, natali in Alaska, poi Texas e New Mexico, una selva di racconti superbi che soltanto un paese come l’Italia poteva tenere lontano fino al 2016.
In quell’anno Bollati Boringhieri (gran merito!) pubblica La donna che scriveva racconti, titolo un po’ improvvisato poiché l’originale più o meno recita Manuale per donne delle pulizie. Ma il successo è immediato. Ora è la volta di Sere in paradiso, altro notevole esempio di come l’arte del racconto, seguendo tipologie per nulla previste da noi, possa far saltare lamenti e battibecchi scontati fra gli scrittori nostrani. Fuoriclasse e diavolo d’una Berlin! Saltano fuori pensieri selvaggi da una tribù di personaggi d’ogni genere e d’ogni età, alle prese con cose spaventevoli e cose tenerissime, come se improvvisamente intere famiglie d’indiani decidessero d’invadere la pianura Padana spargendo intorno, e su abitanti ottusi, semi di vita animistica e intelligenze aliene.
Durante la lettura di questo libro risentiamo l’anima di alcuni santi in Paradiso, ovvero poeti poetesse e scrittori beat amati e venerati anche nei nostri confini. In alcune note biografiche appaiono nomi come Diane di Prima, Denise Levertov, LeRoi Jones (che divenne Amiri Baraka), vale a dire una sterminata famigliaccia di geni alquanto famosa nel movimento di anni italiani ancora ricchi di curiosità, intelligenza e speranza. Un probabile universo parallelo, intralciato e fatto fuori dall’attuale.
A parte la digressione nostalgica, Berlin iniziò a pubblicare nel 1958 una serie di racconti che avevano con sé ben più della vitalità narrativa: portavano in luce vite da un’oscurità ormai stanca di tener nascoste meraviglie. Autobiografia? Certamente non troppo distante, qualcosa di più e qualcosa di meno, un meraviglioso teatro en plein air di fanciulle, ragazzine emigrate e non, dagli occhi scintillanti e capaci di nuotare in mezzo a correnti alluvionali nelle strade fangose di cittadine sperdute verso El Paso. Tipi femminili stretti fra arguzia e povertà, alcol e amori disobbedienti con uomini in pieno disastro, e altre amenità.
Appaiono perfino John Huston, Liz Taylor, Richard Burton e Ava Gardner (e una Sue Lyon reduce da Lolita), bellissimi durante le riprese della Notte dell’iguana, tallonati da non meno magnifici personaggi stanziali (dalle parti di Puerto Vallarta, molto a sud di Durango), incantati e desiderosi di portarsi a letto quelle splendide femmine hollywoodiane. Non che non ci riescano, tra drink perfetti e scazzi in stile Tennessee Williams del paterno regista Houston.
Storie e ancora storie interessavano a Berlin, condite d’improvvisazioni jazz, sempre più in profondità nei legami di affetto e risentimento da vera fuoriclasse della scrittura. Questa scrittrice apre sulle scene desertiche, drammatiche di per sé, cicli poetici di personaggi dalla familiarità scomposta, dal linguaggio imprevisto a ogni battuta. Il paesaggio fuori è una meraviglia, all’interno perfino la doccia di una bella donna diventa irrinunciabile nell’organismo perfetto del racconto. Scrive Mark Berlin, uno dei quattro figli, nella Postfazione: «Lucia, Dio la benedica, era una ribelle e un’artista eccezionale, e da giovane danzava». Tra vortici di bebop, fumo e tequila, nessun dubbio nel crederlo, vero Señor Huston?