Non tutti i testi raccolti in questo primo corposo volume, a cui seguirà un secondo altrettanto corposo che dovrebbe esaurire interamente la narrativa non realistica pubblicata da Mircea Eliade (1907-1986), sono davvero inediti in italiano. Gran parte dei racconti e romanzi del cattedratico rumeno, fantastici e non, infatti venne edita in differente traduzione da Jaca Book già negli anni ’80, ma esaurita da tempo, era ormai di difficile se non impossibile reperimento: bene ha fatto dunque Castelvecchi a rendere di nuovo disponibili al lettore italiano alcune delle opere più tematicamente interessanti e letterariamente seducenti dell’importante storico e fenomenologo delle religioni. Già basterebbe da solo un testo per tutti quelli inclusi nella raccolta – La signorina Christina (avremmo preferito, come nella vecchia traduzione, solo Signorina Christina, senza articolo) – a giustificare l’acquisto di questo volume, un romanzo – altrimenti introvabile (l’edizione precedente Jaca Book, che ho la fortuna di possedere ed aver letto, è del 1983 ma sembra condotta sulla versione francese del testo, anche se vi si specifica che la traduzione è dal rumeno) – che considero, insieme a Dracula di Bram Stoker e Carmilla di Joseph Sheridan Le Fanu, in assoluto la migliore storia di vampiri mai scritta. Detto questo non mi dilungo ulteriormente sul pezzo forte di tutta raccolta e rimando direttamente a un articolo specifico pubblicato qualche anno fa su Pulp Magazine.
Dopo il folklore rumeno riguardo ai vampiri – e la vertigine metafisica vita/morte che ne consegue – Eliade esplora finzionalmente altri molteplici temi e aspetti delle sue ricerche nel campo degli studi religiosi, quasi si concedesse il riposo di una parentesi fantastica nel duro lavoro di elaborazione teorica e filosofica della sua disciplina. In parallelo con i suoi saggi monografici sullo yoga e sulla mistica indiana scrive i racconti Notti a Serampore , Un uomo grande e soprattutto Il segreto del dottor Honigberger; simmetrico a quello sulla dialettica sacro/profano il meno accattivante romanzo breve Il serpente, tutti pubblicati fra la metà degli anni ’30 e i primi ’40. Più recenti invece gli altri racconti, questi sì tutti inediti in italiano, Dodicimila capi di bestiame, La figlia del capitano, Il litomante, Una fotografia di quattordici anni, Dalle zingare, Il ponte, Addio!… compresi tra gli anni ’50 e i primi ’60.
Al di là dell’innegabile valore letterario dell’opera – narrativa e non – dello studioso rumeno, per inquadrarne davvero appieno tutte le implicazioni, filosofiche ed esistenziali, sarebbe necessario delineare globalmente e senza omissioni quella che fu la personalità, tutt’altro che limpida, dell’uomo Eliade e svelare apertamente quali furono in realtà le idee politiche concrete che sostennero l’astrazione dell’impalcatura teorica, apparentemente affascinante, delle sue concezioni sul mito, l’archetipo, l’eterno ritorno e l’Homo Religiosus. Sarebbe utile forse avere almeno un accenno al fatto che Eliade sia stato per tutta la sua carriera letteraria e accademica fino alla sconfitta dell’Asse nella Seconda Guerra mondiale (e quindi mentre scriveva molti dei racconti inclusi in questa raccolta) un convinto militante, teorico e propagandista della Guardia di ferro di Corneliu Codreanu – movimento fascista rumeno (più vicino al nazismo), ultraortodosso, antisocialista e brutalmente antisemita – e nel dopoguerra abbia cercato furbescamente di nascondere ed eclissare il suo compromettente passato senza però mai rinnegarlo o prendere ufficialmente le distanze (cosa che almeno, a suo modo, fece invece il camerata e amico guardista Emil Cioran). Che poi sia stato durante il suo soggiorno in Portogallo un apologeta del dittatore fascista Salazar e che abbia mantenuto nei lunghi decenni della sua fulgida carriera accademica stretti legami con discussi ambienti e personaggi del tradizionalismo o perennialismo, che dir si voglia, o apertamente collusi con la destra neofascista – come Julius Evola – o fortemente ambigui come il gruppo di Eranos e la rivista Antaios legati allo scrittore tedesco Ernst Jünger. Tutte queste utili notizie si guardano bene dal riferircele sia il curatore e traduttore del volume, Horia Corneliu Cicortas – autore di molte e altrettanto reticenti introduzioni a quasi tutti i volumi italiani di e su Eliade, che siano epistolari, diari, testi teatrali e narrativi o la stessa apologia di Salazar – sia l’estensore dell’assai prolissa introduzione allo stesso, Sorin Alexandrescu, figlio della sorella di Eliade, e gestore della sua eredità letteraria dopo la morte dell’ultima moglie dello scrittore, Christinel Eliade, che a sua volta l’aveva sottratta a Ioan Petru Culianu, il brillante allievo designato dallo stesso Eliade, misteriosamente assassinato in una toilette dell’Università di Chicago, dove entrambi insegnavano, nel 1991. È curioso e decisamente inquietante che Culianu sia scomparso in modo tragico e mai chiarito proprio quando aveva iniziato a vuotare il sacco sulla stampa specialistica e non, riguardo alle responsabilità ideologiche del suo ex maestro e mentore, ormai da poco scomparso: qualcuno avrebbe potuto accusarlo di aver fatto carriera sfruttando Eliade e di averlo poi “tradito” rivelando particolari scomodi e disdicevoli sul suo passato, per concludere infine che il povero Culianu “se l’era cercata” e magari quell’esecuzione “se l’era meritata”. A scanso di equivoci Cicortas e Alexandrescu tacciono sempre come sepolcri imbiancati ed Eliade, almeno nei loro commenti, resta il fine intellettuale e letterato che è, senza macchia e senza ombre. Non aveva taciuto però nemmeno Saul Bellow, scrittore ebreo americano, in vecchiaia intimo amico di Eliade, che combattuto fra affetto e stima da un lato e disprezzo dall’altro, nel suo ultimo romanzo Ravelstein (2000), lo traveste sotto lo pseudonimo di Radu Grielescu, descritto come un affascinante professore, “gentleman elegante e raffinato”, un impostore che maschera sotto modi gentili e impeccabili il suo mai sopito antisemitismo e un passato innominabile.
Molti lettori sosterranno che la conoscenza di questi particolari non ha niente a che vedere con il valore letterario delle narrazioni incluse nel volume di Castelvecchi. Siamo i primi a riconoscerne la qualità stilistica e l’originalità tematica, come facciamo del resto, oltre che per quelle di Eliade, anche per gran parte delle opere di Drieu La Rochelle, Céline, Jünger, Mishima: grandi scrittori dalle idee alquanto discutibili. Bisogna leggerli assolutamente, questi scrittori, ma anche contestualizzarli, e per farlo in modo corretto è necessario sfuggire le agiografie acritiche (quelle costantemente riproposte dalla cosiddetta “cultura” di destra, “non conformista” leggi neofascista) e cercare invece resoconti obiettivi, notizie non edulcorate, fatti e controfatti. Dunque è vero l’esatto contrario di quanto affermato prima: la conoscenza di tutti questi particolari ha molto a che vedere con il valore anche letterario dei testi. Per capire davvero Eliade dobbiamo non rimuovere ma anzi approfondire con piena cognizione il suo fascismo guardista, il suo “tradizionalismo” archetipale, il suo potenziale razzismo. Come Saul Bellow, che lo conosceva bene, anche noi dobbiamo bilanciarci, nel considerare l’uomo e l’opera, fra stima e disprezzo. Per questo motivo troviamo stimolanti al ragionamento e alla critica i racconti e i saggi di Eliade, mentre invece ben poco ci interessano le introduzioni e i commenti, falsamente “neutrali” se non omertosi, di Cicortas e Alexandrescu.