Da anni apprezzo il lavoro di Mimmo Franzinelli nel campo degli studi storici sul fascismo e il secondo conflitto mondiale. Una serie nutritissima di ricerche quasi sempre pubblicate da Mondadori – ricordo solo, pescando a caso, RSI. La Repubblica del duce 1943-1945, una storia illustrata, 2007; Delatori. Spie e confidenti anonimi: l’arma segreta del regime fascista, 2001; Il prigioniero di Salò: Mussolini e la tragedia italiana del 1943-1945, 2012; L’amnistia Togliatti: 22 Giugno 1946, colpo di spugna sui crimini fascisti, 2006; Fascismo Anno Zero 1919: la nascita dei Fasci italiani di combattimento, 2019; Il duce e le donne. Avventure e passioni extraconiugali di Mussolini, 2013, ecc. – tutte segnate da un rigore interpretativo delle fonti che mai tradisce l’intenzione fieramente critica verso uno dei momenti più tragici della nostra storia nazionale: un approccio scientifico lontano anni luce dalle facilonerie pericolosamente ambigue di certi storici improvvisati cui il triste e tristo pubblicismo giornalistico contemporaneo ci ha abituato (Vespa, Pansa, e compagnia bella, tanto per non fare nomi). Oltre al sintonico approccio ideologico mi rende Franzinelli particolarmente vicino anche la comune passione per la musica Rock, cui lo studioso ha dedicato due validi volumi enciclopedici, sempre per Mondadori, e – unendo la professione di storico alla competenza musicale – il bellissimo Rock & servizi segreti. Musicisti sotto tiro: Da Pete Seeger a Jimi Hendrix a Fabrizio De André, Bollati Boringhieri, 2010.
Questa sua ultima fatica condivide, fra i testi più recenti in argomento, con L’Italia di Salò 1943-1945 (Il Mulino, 2017) di Mario Avagliano e Marco Palmieri, un approccio “dall’interno” ai fatti e ai personaggi della repubblichetta mussoliniana, non certo per giustificarli e assolverli, come vorrebbe l’attuale astorica e acritica pseudocultura del par condicio creditorum, quanto per meglio evidenziarne le contraddizioni e le storture. Viene denunciato per esempio, adducendo solide prove documentali, il carattere mistificante e autoassolutorio della vulgata neofascista che vede la RSI come “Repubblica necessaria”, sorta per tutelare gli italiani dalla “vendetta germanica”, così come l’impianto strumentale, decontestualizzante e vittimistico dei coccodrilleschi piagnistei sul “sangue dei vinti”.
Punto per punto vengono esaminati e smantellati molti dei miti neri assai più duri a morire dei gerarchetti appesi a Piazzale Loreto. La “socializzazione” per esempio, concezione fumosa e demagogica, vero specchietto per allodole (quasi senza allodole), strombazzata a parole ma mai concretamente voluta né da Mussolini, né tantomeno dai suoi padroni germanici, tuttalpiù invocata da illusi idealisti in buona fede come Pino Bellinetti, debitamente allontanato dalla scena perché ritenuto inopportuno. Oppure il “fascismo di sinistra”, ciarla che crolla miseramente se si esaminano attentamente le biografie dei suoi presunti esponenti, come fa Franzinelli cominciando da Nicola Bombacci, il preteso Lenin di Romagna fulminato improvvisamente dalla grandezza del duce, secondo la leggenda – in realtà da decenni informatore e fiancheggiatore dei Servizi fascisti, abbondantemente finanziato e protetto da Mussolini e già nel 1927 cacciato dal Partito Comunista d’Italia per indegnità politica; o il giornalista Carlo Silvestri, socialista e difensore di Matteotti e dei Rosselli negli anni ’20, divenuto, piegato dal confino, un esaltatore del regime e un propagandista dell’Asse; o il buffonesco ciarlatano Edmondo Cione, ex allievo di Benedetto Croce, proclamato direttore de “L’Italia del popolo”, organo del presunto Raggruppamento nazionale repubblicano socialista, e che sopravvissuto alla resa dei conti, finirà nel dopoguerra, assai poco socialisticamente, a fiancheggiare Guglielmo Giannini, Achille Lauro e perfino il clan Gava.
Molto più concrete invece, anche se sapientemente sminuite o obliterate da reduci e simpatizzanti, le lampanti dimostrazioni di un razzismo e di un antisemitismo ampiamente autonomo dagli imposti obblighi verso gli alleati hitleriani – comodo alibi assolutorio a posteriori. Razzista e antisemita fu, documentatamente, Mussolini fin dal suo passato socialista – come emerge platealmente anche dal suo “romanzo storico” del 1910, Claudia Particella, l’amante del cardinale – e dichiaratamente dal 1919: tendenza che si concretizzerà infine con le leggi razziali del 1938 e giungerà a compimento a Salò come necessaria mitologia aggregante e giustificatoria del “tradimento” e del “complotto giudaico-massonico-plutocratico”. Personaggi ideologicamente molto vicini ai nazisti ma fautori di una via parallela italiana al razzismo, furono poi Giovanni Preziosi e Telesio Interlandi al vertice di riviste stampate in decine di migliaia di copie, la più emblematica delle quali fu “Difesa della razza” – sulle cui pagine tra i più scrupolosi e infervorati alfieri spicca il segretario di redazione Giorgio Almirante. Figure e figuri che dopo il 1943 proseguirono artatamente a istigare rastrellamenti, delazioni e, soprattutto, requisizioni di beni, ben sapendo che il destino delle vittime sarebbe stato la deportazione in Germania e il campo di sterminio. Si arrivò persino a istituire – in totale autonomia dai nazisti – dei corsi di cultura politico-razziale nelle scuole per allievi ufficiali della Guardia nazionale repubblicana, i cui testi di studio erano le Lezioni di cultura politica razziale di Sergio d’Alba – lo stesso docente di razzismo del corso nonché maggiore della GNR –; I protocolli dei savi anziani di Sion, curato da Preziosi (un classico della paranoia antisemita tuttora in auge negli ambienti neofascisti); Gog di Giovanni Papini (testo da solo sufficiente a giustificare la damnatio memoriae che ha colpito nel dopoguerra l’avventuriero letterario fiorentino); e Il mito del sangue di Julius Evola.
Interessante il fatto che Franzinelli evidenzi fra gli intellettuali di riferimento del fascismo repubblicano, oltre ai più scontati Gentile, Marinetti e Pound, proprio Julius Evola (figura intellettualmente del tutto marginale e irrilevante rispetto agli altri tre), associato di solito soprattutto al neofascismo del dopoguerra e che i suoi fin troppo numerosi supporter contemporanei – patetico esempio ne sono Gianfranco de Turris e i suoi pupilli della Fondazione Julius Evola – si ostinano invano a voler riabilitare culturalmente dissimulando il suo fanatico razzismo e il suo esaltato collaborazionismo. Oltre che mestatore antisemita e ideologo pseudoesotericizzante il “barone” (farlocco) fu spia e informatore delle SS e dell’SD nazista. Va a questo proposito segnalata una svista di Franzinelli, la fotografia riportata a pag. 296 non ritrae un giovane Evola, come segnala la didascalia, ma il povero Tristan Tzara, fondatore del dadaismo, colpevole solo di indossare il monocolo – come faceva Evola – e di averlo conosciuto durante la sua effimera militanza nel movimento Dada.
Inquietante anche il capitolo che tratta delle armate della Repubblica, con le loro differenti caratteristiche e particolarità: la X Mas di Junio Valerio Borghese, la Guardia nazionale repubblicana, la Legione autonoma “Muti”, le Brigate nere; fino alle polizie speciali, vere gang di delinquenti e di psicopatici legalizzati come la Banda Carità o la Banda Koch. Un lungo paragrafo dedicato al Servizio ausiliario femminile evidenzia il profondo fraintendimento da parte di molte donne di un malinteso riscatto muliebre che le spinge ad attribuirsi un ruolo stavolta guerriero e non più di angelo del focolare, come fino ad allora imposto dal regime: saranno probabilmente proprio queste donne a pagare più cara la loro mal riposta buona fede dopo la Liberazione. Un ulteriore peso sulla coscienza non dei liberatori ma dei fascisti che le hanno usate, illuse e fuorviate.
Emerge infine la figura paradossale di Mussolini, tragico buffone, burattino nelle mani dei nazisti, instancabile nello sfogare vittimisticamente la sua rabbia impotente in frequenti e lunghe lettere all’amante Clara Petacci – che supplica poi di distruggere, consapevole di quanto ridicola apparirebbe la sua immagine ai posteri – e tetragono nel respingere ogni responsabilità scaricandola sugli altri: i tedeschi, gli italiani, i gerarchi, i traditori, gli ebrei, ecc. Chiuderà il suo “giorno da leone”, senza nemmeno la macabra dignità di Hitler, ma vigliaccamente, in fuga, vestendo un’uniforme straniera: Pulcinella avrebbe fatto di meglio. Non gli resta ormai che l’ultimo spettacolo del guitto, a testa in giù a Piazzale Loreto: la “macelleria messicana” è quasi un favore che gli viene fatto, a conferirgli nella memoria troppo corta degli italiani perfino le stigmate del martire.
Si chiude con i conti finali della Liberazione, sfatando le cifre iperboliche millantate da reduci e simpatizzanti neofascisti, e stimando realisticamente un numero di circa diecimila fascisti uccisi. Un numero tutto sommato congruo, assai inferiore in proporzione a quello per esempio delle contemporanee esecuzioni capitali della Francia. Chi fra le gerarchie repubblichine avrà l’accortezza o la fortuna di sfuggire alla vendetta immediata dei partigiani la farà franca: l’amnistia Togliatti e la complicità di magistrati indulgenti o apertamente conniventi, comminerà pene irrisorie anche ai peggiori criminali di guerra e la provvidenziale cortina fumogena dell’oblio e della rimozione cancellerà in pochi anni peccati e peccatori. Il reintegro quasi immediato nei loro ruoli di gran parte dei funzionari ex fascisti creerà infine fra le due repubbliche più continuità che frattura: l’Italia non è un paese da epurazioni.
In estrema sintesi dunque, l’ultimo lavoro di Franzinelli è un volume utilissimo per avere un quadro generale, davvero a 360 gradi, rapido ma approfondito, preciso e documentato, di uno dei momenti storici chiave per capire davvero il nostro paese in tutto il suo squallore politico e umano: non solo l’Italia di Mussolini, ma anche, e forse soprattutto, quella che la Resistenza non sarebbe riuscita a cambiare.