Nel presentare la riedizione della sua traduzione dei Fiori del male Giovanni Raboni nel 1998, oltre a ricordare di averla rivista più volte nel corso di 25 anni, ripercorre la storia delle traduzioni baudelairiane, che risentì sia del ritardo culturale della nostra lirica “prebaudelairiana”, così la definisce Raboni, sia del fatto che la medesima divenne immediatamente “postbaudelairiana” ponendosi dal primo ’900 in poi sotto l’influenza di Rimbaud e soprattutto di Mallarmé. L’attenzione per i Fiori del Male riprende tra gli anni ’60 e gli anni ’70, con le traduzioni di Caproni, Bertolucci, Bonfantini, Delmay, oltre che con la sua del 1973. Questa ripresa era dovuta, spiega Raboni, alla fine dell’influenza dell’ermetismo e del fattore-Mallarmé sulla poesia lirica italiana, che nel frattempo subiva a sua volta critiche sia da parte del Gruppo ’63, sia dalle istanze politiche post-’68. Nel frattempo, va detto, Feltrinelli aveva pubblicato una traduzione di Luigi De Nardis nel 1964, anche questa sotto l’influenza stilistica ermetica, che sarà (purtroppo) un long seller, il Baudelaire canonico per molti studenti delle generazioni nuove, specie che accedevano all’università tra la metà degli anni ’70 e i primi anni ’80, grazie al costo da edizione economica. In quel solco di Baudelaire tradotto da un poeta, c’è oggi una nuova versione, quella di un grande poeta come Milo De Angelis, figura chiave della poesia italiana tra ’900 e l’oggi (e poi vedremo come incroci anche la sua recente produzione) e da sempre traduttore, dai Paradisi artificiali dello stesso poeta francese tradotto nel 1978 fino alla penultima impresa, il De rerum natura di Lucrezio. Il volume esce ancora nella collana dello Specchio e significativamente porta nello spazio dell’autore il nome di Milo De Angelis e come titolo I Fiori del Male di Baudelaire a sottolinearne l’importanza di una versione d’autore.
Se la ripresa d’attenzione per Baudelaire coincise con la fine dell’ermetismo sessanta anni fa, oggi questa traduzione-astro in che modo attraversa e illumina il panorama della poesia italiana del 2024? Più difficile dirlo, la mappa è assai frastagliata. Questa nuova impresa di traduzione è frutto di un desiderio antico di De Angelis a cui abbiamo chiesto quale fu la sua prima esperienza di lettore dei Fiori del Male: “Avvenne durante la scuola media – ci scrive – quando lessi la traduzione di Luigi De Nardis, uscita all’inizio degli anni Sessanta. Conoscendo già il francese per ragioni di famiglia, rimasi colpito da quanto fosse ‘vecchia’ questa traduzione, come imbalsamata in un lessico ottocentesco che finiva per spegnere ogni fiamma poetica. Mi proposi già allora di tradurre Baudelaire – cosa avvenuta con sessant’anni di ritardo – e di restituirgli il soffio vitale, di immergerlo nel palpito ardente della nostra lingua”. De Angelis attraversa quegli anni di decisi contrasti (anche) dentro il mondo della poesia, con un “pubblico” certamente allargato già dalla metà degli anni ’70, poco dopo questa ripresa di traduzioni baudelairiane, egli stesso debutta con Somiglianze nel 1976 (per le coincidenze astrali, è lo stesso anno in cui compare la prima traduzione di un altro poeta lirico fondamentale come Paul Celan, nella versione di Moshe Kahn uscita sempre per Lo Specchio mondadoriano (e oggi di nuovo disponibile, ne ha scritto qui su “Pulp Magazine” Elio Grasso). Ci saranno poi altre traduzioni (da quella di Bufalino del 1983 a quella di Giuseppe Montesano del 2021, passando per quella di Antonio Prete). Ricordava Walter Benjamin, a sua volta traduttore di Baudelaire (e che forse deve al poeta francese molti elementi del suo stesso pensiero) che una traduzione è un atto di “sopravvivenza” dell’originale, riportato a essere vivo, a “riconoscere vita a tutto ciò a cui si dà storia”. Non è molto distante da ciò che De Angelis si è dato come compito: quello di “mantenere al tempo stesso una fedeltà ossessiva al lessico di Baudelaire – ci ha scritto ancora – che è sempre preciso, tagliente, appuntito e persino gergale quando si addentra nel mondo femminile della moda e della ‘haute couture’”.
Fedeltà stilistica a un lessico immerso nella sua storia e insieme aderenza al nostro, del XXI secolo. Un’operazione riuscita, nel suo di un italiano limpido e alto, esatto e materico, ricollocando Baudelaire in una contemporaneità dilatata, in cui il poeta della Parigi capitale di un nascente tardo-capitalismo rivive dentro il nostro tempo storico che leggiamo anche grazie a quanto Baudelaire lo intuì nella sua essenza fantasmatica che diamo alla merce, la potenza seduttiva dell’artificiale, il senso di isolamento ed esaltazione del naufragio dentro la folla dei nostri sembianti e in cui ognuno di noi vorrebbe essere l’unico. Anche il lampo improvviso di una passante, il rapido nascere in noi di un sentimento, il suo dissolversi, non sono così diverse dallo scroll di volti che facciamo su Tinder.
Ma come attraversa questa traduzione la situazione della poesia italiana? Rivela qualcosa? La categoria “poeta lirico” è la più diffusa tra gli scriventi versi di oggi, ma pure quella che subisce attacchi da una componente che semplificando potremmo definire “di ricerca” perché linguaggio separato dalla realtà, chiuso in monadi espressive e psicologiche ormai vecchie.
Riletto in questa traduzione, il personaggio che dice “io” nei Fiori del Male – archetipo di tutti i “Lirici” – offre un modello ben diverso, come teatrante di affermazioni molteplici, immerso nella palude dei linguaggi anche specifici, settoriali o gergali. Non ha vezzosità da “poetese” ha un procedere sintatticamente ordinato ed è “curioso” del mondo, spiega De Angelis. Al tradizionale sentimento malinconico dello spleen, Baudelaire alterna infatti quello vivace e cool, spiazzante, di un ricettore attraversato dalle fibre di particelle variabili del reale, che si fanno segni delle lacerazioni della sua anima-ragnatela. De Angelis ricorda che Baudelaire ha dato voce ad un “io” che possiamo dire ancora “uomo del nostro tempo”, scisso e sradicato anche da sé stesso, “che ha smarrito la sua unità” come tutti noi.
Le tante spinte sensibili, psichiche di Baudelaire (è il primo poeta che introduce il temine, allora solo scientifico, di “Cervello” nella poesia e pensiamo a quanto oggi le neuroscienze possano sollecitare un’idea di coscienza per un poeta) convergono nelle corrispondenze di spaziotempo della “profondità”, una parola-concetto che ricorre spesso nei Fiori del Male. In lui agisce una ferita ma “senza origine” perché scrive De Angelis, nel senso che non risiede in un “luogo” arcaico che viene prima, ma è una sorta di paradossale scissione fondante in quanto continuamente generata insieme al mondo “nuovo” che gli cresce intorno, alla città, si suoi incontri, l’umanità brulicante, al rapporto con le droghe e i paradisi artificiali, e soprattutto l’esperienza erotica della bellezza, che sta nei corpi ma anche negli oggetti-feticcio.
La scelta metrica di De Angelis è per un verso ipermetro, disteso e ritmico. Non c’è alcuna propensione all’isomorfismo, isometria e men che meno al doppio settenario, un surrogato dell’alessandrino controproducente, sebbene crei con l’italiano un’onda sonora che restituisce il tono della musica dei versi francesi, con un verso libero che ha precisa andatura, non atonale o casuale, seguendo la sintassi, contenendo anche stralci metrici e rime inevitabili ma senza forzare. Rimette spesso in ordine una sintassi, evitando l’anticipazione delle frasi secondarie che creerebbero oggi un effetto di “vecchio” e retorico, un solo esempio a campione: in “Al lettore” i versi “Serré, fourmillant, comme un milion d’helminthes/ Dans nos cerveaux ribote un peuple de Démons” diventa “Dentro il nostro cervello gozzoviglia un popolo di demoni/fitto e formicolante come un milione di elminti”. Da notare per l’appunto il lessico baudelairiano, tra gergo e scienza che De Angelis segue. La sintassi mette in luce bene l’elemento cardine della scrittura di Baudelaire che è anche una forma del suo pensiero e che Stefano Agosti identificava nella “comparaison” molto più che la metafora.
Sempre per connettere questa traduzione al dibattito corrente, è come se già si facesse strada quel Baudelaire che una volta pubblicata l’edizione del 1861 scrisse solo una ventina di poesie fino all’anno della morte, mentre scrisse molti dei suoi Tableaux de Lo spleen (che Baudelaire definì così: “sarà i Fiori del Male, ma con più libertà”), poi sparsi Fusées e frammenti del “Cuore messo a nudo”. Tentativi di evoluzione di ciò che già era nei Fleurs che Baudelaire definiva in una lettera come qualcosa in cui era “riuscito a oltrepassare i limiti assegnati alla poesia”. La stava collocando in un diverso spazio in cui si attuava quella che Raboni chiama “un’alleanza” tra poesia e prosa, citando Thibaudet, un’alleanza “tra prosa nuda e poesia pura”.
Dunque, è assai significativo che questa traduzione arrivi in anni in cui si sta discutendo molto dello sconfinamento verso la prosa del verso, per la poesia che viene “Dopo la lirica” negli Anni Zero. Anche lo stesso De Angelis ha praticato un verso più allungato di recente, specie in Linea intera linea spezzata” del 2021. Forse è il segnale di una poesia che ha necessità di recuperare un andamento del pensiero poetante e insieme liberarsi di ogni griglia.
Ci piace chiudere su una suggestione ancora in tema di coincidenze: Roberto Calasso in Folie Baudelaire racconta di come il giovane Charles abbia formato la sua mano di versificatore non sui poeti a lui coevi, ma dalle traduzioni dal latino e grazie alle composizioni in latino fatte al liceo. Così possiamo fantasticare una triangolazione tra il verso latino di Virgilio e di Lucrezio, quello italiano di De Angelis e quello francese di Baudelaire.
Il poeta passato alla storia come Maledetto malgré lui (non figurava neppure nell’antologia che coniò la formula), il poeta in cerca di Benedizione per le sue abiezioni di santo che aveva gettato al fango “l’aureola”, poco prima di morire e già malato progettava uno dei tanti libri mai fatti, di cui resta un frammento da titolo da fantascienza: “La capitale delle scimmie”. L’idea somiglia al progetto iper-baudelairiano de I “passages” di Parigi di Walter Benjamin: erano ritagli di giornali, biglietti, flyer, manifesti pubblicitari. Insomma, silenziata la parola, in Baudelaire prendeva direttamente corpo e materia (come ready-made) la prosa del mondo. Una prosa senza scrittura. Per lui, che aveva creato allegorie di stati psicofisici come nessuno prima, restava solo paralisi e afasia, due stati che diverranno – nel ’900 di Joyce e di Beckett – emblemi di una condizione dell’esistere e idee che ancora oggi servono a dar nome al male dei nostri fiori.