E quando infine stabilirono chi avrebbe proseguito in treno o in macchina, la tirai per una spalla e sussurrai: “E se tornassimo indietro?” (Le Marlboro di Sarajevo, Miljenko Jergović 1994)
Fin dal suo magico esordio, scandito dallo stile degli apologhi zen, Miljenko Jergović ha lasciato intendere al lettore che una cifra consistente della sua narrazione sarebbe stata la fuga a ritroso.
Non quella drammatica del disertore, però, quanto quella leggera del giovane partner vinto dall’imbarazzo del disagio, come si autorappresenta nello scorcio qui sopra: un novello Ulrich senza qualità impossibilitato a fare gruppo nel classico capodanno da festeggiare per puro senso del dovere – un dovere che all’alba della guerra bosniaca diventa già vischioso, come il miele della nostalgia.
Nella produzione di Jergović l’allontanamento volontario dai sentieri obbligati e battuti della storia ufficiale è durato lo spazio di un decennio.
Dallo struggente Ruta Tannenbaum[1] fino al malinconico Radio Wilimowski[1] l’orrore uncinato del Ventesimo Secolo è stato sempre colto dallo scrittore bosniaco attraverso la soggettiva degli Untermenschen. Di chi è inferiore non per genetica, ma per distanza incolmabile da ogni grandezza: incapace di leggere o scrivere la storia, quindi costretto a fare numero nelle sue pagine, immerso in quella fatale innocenza (simulazione della normalità) che il Secolo Breve ha riservato alle sue vittime migliori.
Con L’attentato (Nutrimenti, 2021, pagg. 192, Euro 18,00) finalmente Jergović trova il coraggio fosburyano di invecchiare, di oltrepassare ogni scrupolo residuo da eterno ragazzo ex-jugoslavo. Deve far scomparire dalla scena della scrittura la timidezza d’approccio – ed ogni altro timore retrospettivo – come rottami da stipare insieme a tutti gli altri souvenir con la stella rossa.
Nel lanciarsi di spalle e alle spalle, lo scrittore ormai affermato sa bene di non poter più confidare sulla tragicità inenarrabile del nazismo. È il momento di guardare la Gorgone dritta negli occhi, dall’alto. Di indossare completamente i panni del bosniaco radicato nell’esilio croato e puntare a quel 28 giugno 1914.
“Gavrilo Princip faceva parte della prima generazione di slavi del Sud che si sarebbe formata sull’esempio della cultura popolare americana. Tra il biliardo e i romanzi gialli nasceva un mondo molto lontano da quell’eroico ragazzo ossessionato dall’epica, che non voleva dormire coi turchi”.
Il primo passo (all’indietro) necessario per portare il peso della storia nella dimensione metaforica della narrazione è rinunciare all’epos, alle ombre cospirazioniste e geopolitiche che da sempre si allungano – come i fili dei burattini – sui protagonisti di quanto avvenuto quel fatidico giorno a Sarajevo.
Un giorno che per la nostra storiografia ha sempre rappresentato l’incipit per antonomasia: la miccia, il detonatore, l’esplosione, il pretesto.
Il duplice omicidio del 1914 vive da sempre della grassa ipocrisia di chi pensa che sarebbe potuto accadere solo lì e solo in funzione di uno strategico disegno continentale, nel quale le tribù balcaniche potevano aspirare al massimo al ruolo di comparse o di utili idioti.
“A differenza dell’inconcepibile frenesia della vita viennese o parigina, la vita di Sarajevo era così lenta che un proiettile sparato da una pistola avrebbe impiegato centinaia d’anni prima di colpire o mancare il suo bersaglio”.
Gavrilo avrebbe dovuto agire per ultimo, tra gli aderenti della Mlada Bosna[4] disposti quel giorno sulle strade e i marciapiedi, quindi solo in caso di fallimento degli altri compagni. Altro che eroe solitario: era il ripiego, lui, o l’extrema ratio. La sua avrebbe dovuto essere la chance che solitamente si ritaglia la disperazione quando vuole compensare le mancanze precedenti.
Anche quelle di chi, pochi anni prima, non riuscì ad uccidere l’imperatore Franz Joseph in persona: perché trovandoselo davanti ci vide soltanto un vecchio moribondo, giunto al crepuscolo della sua grandezza – si può sparare a un orso che guarda il tramonto?[5] No di certo.
La figura di Princip deve liberarsi del suo secolare abito di regicida su commissione se vuole finalmente raccontare gli avvenimenti dal proprio punto di vista. È per questo che Jergović decide di adottare una soluzione eccentrica quanto originale nello stile narrativo, costruendo attorno al reo una specie di caleidoscopio biografico.
Dato che un romanzo non può mai rivelare con pienezza il significato imperscrutabile delle scelte dei singoli nel domino a caduta della storia, Jergović decide di operare come fosse un pittore, un Guttuso alle prese con la composizione di un suo quadro: i profili dei protagonisti principali dell’attentato vengono accostati continuamente e sistematicamente a quelli di decine di altri personaggi secondari e di comparse, frutto di incontri o di semplici associazioni nella sincronia storica di allora.
Personaggi e comparse che perciò si trovano a prendere vita in cerchi concentrici, per restituire al mondo attuale il respiro complessivo di ciò che fu il contesto nel quale maturò l’assassinio di Franz Ferdinand e della moglie Sofia.
“Ovunque si scriva o si parli dell’attentato di Sarajevo […] si dimentica che gli assassini combattevano per la libertà, e ai combattenti per la libertà in qualche modo si perdona e si dimentica che hanno ucciso”.
I diretti responsabili del duplice omicidio – compreso Gavrilo Princip – erano tutti minorenni, quel 28 giugno. Per la legge austriaca, quindi, non poterono essere condannati a morte. Il boia dovette allora infierire sui loro padrini politici e sui complici occulti maggiorenni.
Nella visione di Jergović anche lui, il boia in persona, si delinea come personaggio storico, quindi come cerchio da tracciare tra gli altri: di nome faceva Alois Seyfried, era austriaco, e dal momento che la storia vive di contrappassi danteschi, dopo un’intera esistenza trascorsa nell’assoluta fedeltà alla doppia corona asburgica, Seyfried morirà nel suo letto e in patria, sì, ma a pochissime settimane dall’Anschluss nazista e la sparizione del Paese in nome del quale aveva ucciso.
Un destino simile a quello di Pepi Doležal, guardia carceraria di Sarajevo che si rifiuta di dileggiare uno dei più innocenti tra i sospettati delle prime ore: nel successivo tempo degli ustascia la sua flebile resistenza umana nei confronti della necessità storica si tradurrà nel salvataggio della partigiana titina Olga Humo e quindi nella successiva morte all’interno di un lager nazista nella remota Norvegia.
“A un tratto il treno si ferma in piena marcia. L’aiutante dell’arciduca arriva e dice che gli assili hanno preso fuoco. “Che bell’inizio del viaggio! Qui c’è l’incendio e là voleranno le bombe”. Francesco Ferdinando è un uomo spiritoso. È orgoglioso quando a volte sente ripetere intorno a sé qualche sua battuta. Ecco perchè lo dice. Sofia non ride […] Semplicemente non le piacciono le battute del marito. I maschi, scherzando, invocano disgrazie”.
Jergović tocca alcuni degli apici della propria maestria descrittiva tracciando numerosi ritratti di Francesco Ferdinando. Ritratti che si alternano freneticamente nei vari capitoli. Alla tecnica di Guttuso, qui però si sostituisce quella di Francis Bacon: l’arciduca ci appare un attimo prima con il volto bonario di un marito che si inimica l’imperatore in persona per poter sposare Sofia (lignaggio più basso, ostracismo di corte) e l’attimo seguente come uno spaventoso antisemita, un quasi-sovrano grezzo, ipocrita e ultracattolico.
“Lui era rimasto semplicemente un austriaco. Austriaco e viennese, orgoglioso della sua patria ristretta, un uomo con la mentalità di un tifoso di calcio […] credeva che pregiudizi e miti potessero essere un ottimo strumento per governare le masse”.
Per questo Jergović non può esimersi dall’ammetterlo. Mentre Gavrilo Princip è divenuto nel tempo il simbolo di ogni dada-surrealismo balcanico, figura onnipresente nel marketing, nella cultura di massa e nei witz bosniaci fin dai tempi della Jugoslavia socialista, Francesco Ferdinando al contrario vive in noi come una delle figure del nostro odio.
Molto al di qua di quell’odio, nel regno un po’ autoreferenziale e un po’ edipico in cui gli epigoni fremono per avere la rivincita sugli eroi del passato, lo scrittore Miljenko Jergović – inserendosi furtivamente al posto del narratore – decide che il suo romanzo può rappresentare anche una straordinaria occasione per regolare i conti con un altro genere di retaggio, certamente per lui più ingombrante: la tradizione letteraria “jugoslava” legata alla figura di Ivo Andrić, anche lui in gioventù membro della Mlada Bosna.
Verso il canonico “padre” Jergović sembra voler adottare un atteggiamento volutamente puerile, colmo di sterili j’accuse che poco hanno a che vedere con il lavoro intellettuale dell’autore de Il Ponte sulla Drina.
Procedendo nella lettura del romanzo, in ordine sparso, troviamo:
Un Andrić che non avrebbe avuto il coraggio ardimentoso di fare ciò che eroicamente fece Princip (Invece di diventare un rivoluzionario, continua i suoi studi decisamente incerti).
Un Andrić che avrebbe coltivato l’atteggiamento pietistico a posteriori tipico degli imboscati sopravvissuti alle rivolte della loro generazione (lo scrittore è pronto ad accollarsi i peccati degli altri e, come il Cireneo, prende sulle spalle la croce).
Un Andrić che se fosse morto come il suo compagno [Miloš Vidaković, croato, deceduto per tubercolosi nel 1915] avrebbe fatto parte della letteratura croata.
E infine quello che suona come un vero epitaffio della damnatio privata: Andrić non si sacrificò, come invece hanno fatto altri per tutto il corso del secolo […] Lui li osservava come fa un uomo triste, un vecchio turco, nascondendo il fatto che con loro, in realtà, non aveva nulla da spartire.
Davvero un peccato che questo ressentiment affiori così pervicacemente e intensamente negli autori contemporanei dell’area balcanica, rispetto ai quali Jergović dovrebbe rappresentare almeno una viva eccezione – anche se spesso così non è (https://www.balcanicaucaso.org/aree/Serbia/Andric-e-il-guazzabuglio-romanzesco-di-Svetislav-Basara-210563).
Verrebbe da pensare che il destino dei moderni Fosbury delle letterature del “vicino est” (quelli con le spalle rivolte alle macerie ben più dell’Angelus di Benjamin) sia spesso quello di sfruttare l’elevazione arcuata per colpire ripetutamente l’asticella, invece di farsela passare abilmente sotto la schiena.
[1] Durieux, Zagabria, 2006; ed. it. Nutrimenti, 2019
[1] Fraktura, Zagabria, 2016; ed. it. Bottega Errante Edizioni, 2018
[4] https://it.wikipedia.org/wiki/Mlada_Bosna
[5] La metafora, citata nel libro a pagina 28, è dello scrittore Ćamil Sijarić