È possibile scrivere di temi difficili e scottanti come l’immigrazione e l’incontro-scontro tra culture oppure parlare di disuguaglianze e di povertà usando un tono lieve, acutissimo, a volte perfino gentilmente ironico? È possibile posare lo sguardo sugli esseri umani ritratti nella loro stupidità o prigionieri delle loro paure e della loro diffidenza senza formulare giudizi perentori e definitivi, riuscendo a sottrarli alla terribile propaganda politica che li strumentalizza per scagliarli contro altri esseri umani? Sì, è possibile. C’è riuscita Milena Agus, con il suo Un tempo gentile.
Ma come si riesce in questo intento? Non basta la perizia di una scrittrice che raggiunse la notorietà con Mal di pietre (Nottetempo, 2016), pubblicato per la prima volta circa quindici anni fa e da cui è stato tratto anche un film di discreto successo diretto da Nicole Garcia. Non bastano neanche la dozzina di titoli, quasi tutti per l’editore Nottetempo, che sono seguiti alle prime pubblicazioni. Ci vuole una grande sensibilità umana e un’attenzione molto precisa nel valutare i dettagli e le forme involontarie del vivere e dell’agire.
Proprio nelle prime pagine del libro, tra le tante vicende che si succedono rapidamente, nell’incontro tra immigrati (chiamati “invasori”), volontari e abitanti del luogo, la prima problematica che emerge è quella religiosa. Naturalmente, non si tratta di discussioni teologiche, ma di alcuni piccoli “incidenti” per i quali, per esempio, la mussulmana Saida Amal, non avendo potuto utilizzare il suo hijab fradicio ha in capo una tovaglietta con su scritto Buona Pasqua. Allo stesso tempo, qualche capitolo più tardi, la volontaria evangelica si immerge in una discussione con Devota, l’indigena cattolica molto ortodossa, che si scandalizza perché la “protestante” non crede che la Madonna abbia una natura divina. Poi, quando un “Professore” le spiega che gli evangelici sono cristiani come gli altri, ma che non hanno la messa, l’eucarestia, la confessione, il sacerdozio, i santi né l’estrema unzione, Devota commenta “tutto sommato ci conviene restare cattolici, questi non hanno un cazzo”.
Ma veniamo alla storia. Tutto ha inizio in un paesino sardo, nel Campidanese, dimenticato da Dio e dagli uomini, anzi ridotto a occasione di sfruttamento a causa della rinuncia forzata alla normale produzione di pomodori, lattughe, cavoli, meloni e finocchi, per passare alla produzione intensiva di carciofi e biomasse. In questo paesino prevalentemente abitato da anziani, mentre le donne organizzano a casa propria il cambio di stagione accade un fatto inaspettato: arrivano gli invasori. Inizia così un romanzo corale che vede le donne in prima fila a cercare di gestire una faccenda per la quale i loro uomini avrebbero solo eretto muri e chiuso porte. Nasce così un movimento di incontri che vede da una parte paura e diffidenza, dall’altra delusione e disincanto. Finché questa relazione, senz’altro complicata, non inizia a diventare concreta e fattiva. Mentre il paese si trova spaccato a metà sugli atteggiamenti da assumere verso gli invasori, questi, insieme a un gruppo di donne, danno vita a un orto collettivo, un “poderetto” con cui potersi sostentare.
L’intesa e il confronto crescono, emergono meglio le figure dei volontari che accompagnano questo gruppo di persone ed emergono anche interrogativi e problemi che potrebbero minare la convivenza: le donne immigrate rubano gli uomini del paese? E noi bianchi chi siamo, i discendenti di colonizzatori, crociati e schiavisti? E i neri lavorano? Quali sono “i lavori dei neri”? E così via tra luoghi comuni e preoccupazioni che noi tutti conosciamo ma che qui vengono trattati con delicatezza, anzi, con gentilezza, come recita il titolo del libro.
Come una novella per adulti, il romanzo termina in una concreta bellezza, con un grande, gioioso ballo, prima della separazione. Il paese dei vinti ha trovato negli invasori un’altra comunità di sconfitti, con cui però ha costruito un legame solidale.
E così Milena Agus, scrittrice genovese di origini sarde, che vive a Cagliari, ci ha gentilmente fatto un bel regalo.