Questo è un libro che agita e seduce. Raccoglie due testi di Milan Kundera usciti in origine su “Le Débat” nel 1980 e 1985. In Prague, poème qui disparaît sorprende – in un tempo, oggi, in cui l’Ucraina è stata invasa e messa a ferro e fuoco dalla Russia – come Praga venga vista dallo scrittore come luogo mai appartenuto all’Europa dell’Est ma che nel 1968 venne anch’esso invaso e allontanato nelle nebbie di Levante. Un tentativo il suo di far riemergere la lingua ceca, mai interamente conosciuta se non attraverso fonti tedesche. La visione europea riguardante le lingue delle piccole nazioni appare alquanto nebulosa, eppure Breton definisce Praga “capitale magica”, lì si dà il primo impulso allo strutturalismo e Kafka rinnova la tradizione fantastica della città inserendovi il reale della sua visione, smascherando la vita sociale. Come non essere d’accordo con Kundera? La penetrazione nella macchina totalitaria di scrittori così diversi come Kafka e Hašek, da parte dei loro personaggi (Josef K. e Švejk), difficilmente sarebbe potuta avvenire per esempio in Russia o Francia. I meccanismi, anche comici, del progresso richiedono uno sguardo disincantato perché ne vengano svelati gli aspetti oscuri e morbosi.
Kundera vede la Praga di Kafka per niente provinciale, all’inizio del secolo XX la maggioranza degli scrittori ebrei guarda oltre le dispute fra cechi e tedeschi, tanto che persino il cubismo di Picasso assurge a “metodo” pittorico e letterario. E il surrealismo ceco, scrive Kundera, trova conferma nella “specificità fantastica e irrazionale” della tradizione artistica praghese. In ultimo, Kundera assalta con tutte le sue forze d’oppositore ai regimi accusando l’invasione russa del 1968 d’aver spazzato via una generazione e “tutta la cultura moderna che l’ha preceduta”: a Praga scomparirono diritti democratici e la cultura fu trasformata – citando l’amato e grande poeta surrealista Vítĕslav Nezval – in “un foglio di carta in fiamme / dove scompare la poesia”.
In Ottantanove parole, rimaneggiato nel 1986 per l’edizione francese di L’arte del romanzo, Kundera ha l’esigenza di chiarire il significato di parole per lui “chiave”, scritte nella lingua ceca e spesso travisate da traduttori non sempre riguardosi verso l’originale. Amici o meno, sembra che l’infedeltà sia metodica, tanto che lo scrittore sente il dovere di verificare gran parte delle edizioni uscite in Francia. Non si sente in grado di scrivere romanzi in francese, da qui sorge l’amarezza ancor più bruciante sapendo che dal 1968 in poi le sue opere non potevano più vedere la luce in Cecoslovacchia: “Persino gli amici praghesi più cari non hanno visto una sola copia ceca dei miei libri”. Molti gli editori, fra cui Roberto Calasso, che prendono sul serio la sua visione del problema. Da “aforisma” a “volgarità”, passando per “bellezza”, “confine”, “essere”, “fornicare”, “leggerezza”, “oblio”, mostra significati che non raramente sorprendono per sguardo liberatorio e disincanto, e ironia – “cha attiene al romanzo “in quanto arte”. In Praga, poesia che scompare troviamo qualcosa di più che sta svanendo, affogato nell’individualismo pesante e insostenibile se non nei totalitarismi. 1968-2022, due date che agitano gli spiriti, e che trovano in queste poche pagine ancora una volta un antidoto ai labirinti burocratici di un mondo trasformato in una immensa “trappola”.